03/11/13

Stefano Guglielmin, LE VOLPI CHE GRIDANO IN GIARDINO

Emergere dalla lettura di questa “anomala” e ricomposta raccolta di Canti [1], in parte già editi, è  forse il verbo che meglio  esprime la mia uscita da un magma vitalissimo che letteralmente mi ha sommerso, come raramente mi succede leggendo poesia contemporanea. L’anomalia risiede nella volontà evidente di costruire un unicum  accostando  esperienze  di pensiero e linguaggio - come  mi conferma l’autore -  che abbiano l’impronta  dell’accoglienza indiscriminata e per questo fertilissima,  “perchè  il pensiero che muove la mia parola fonda nello stile plurale, perché plurale è la vita”. Questo crossover di generi e registri, come rilevato con acutezza anche da Paolo  Donini in prefazione, è superamento del cliché della compattezza di una raccolta poetica, necessità di guardare oggi verso un più largo orizzonte cognitivo-visionario, in un costante e dilatato incontro-scambio di poetiche.
           
Così questa scrittura si fa materia cangiante, poliedrica, ribelle, civile. Capace di trasmettere, per esempio, da un versante, lo stupore di fronte all’imprendibilità del femminile, dall’altro la presa d’atto -amara - delle infinite macerie etiche del nostro mondo, con tutta la ribellione e il carico di un cambiamento a partire da sé.
           
Nei Canti dell’Amore Coniugale, nessuno - credo - prima di  Guglielmin,  ha saputo trasporre in poesia  una  percezione nuova del femminile di oggi, un’essenza  di donna quieta e sapiente, e insieme una specie di folle naturalezza, quella misteriosa  mobilità che assimila il femminile a creaturalità incontaminata, pur nello scambio di carnalità e pensiero, “animale che stagiona e riparte e ancora plana riposa e di nuovo s’invola, mai solo”. L’autore capta nell’essenza di donna note mai prima evidenziate in poesia (maschile), che esprimono quella capacità del genere, di saper scomparire facendo  spazio al “volo largo della specie”, di attraversare con naturalezza la dimensione dell’uno per fondersi in quella corale - oggi più che mai necessaria -, quel suo offrirsi guardingo e insieme generosamente aperto al destino. Tutto questo si trasmette lungo i tredici primi Canti e si concentra mirabilmente nei versi in cui si dice del gesto della compagna nel suo voler compiacere il consorte chiamandolo poeta.  Riconoscendo così di vivere, lui, la Grande Illusione della poesia con quella massima autoironia che lo eleva e dunque lo elegge poeta.
       
Nei Canti Partigiani la lente visionaria-razionale si sposta sul male di vivere, quella incomprensibile nostra contraddizione dell’ essere sociali e insieme irreparabilmente a-sociali,  la dimensione grassa dell’Ocidente (per quanto ancora?), la sozzura della politica dei compromessi e della corruzione, l’incapacità del balzo etico globale, quello di vedere oltre e  lontano, per il bene di tutti. E nell’ultima strofa Guglielmin trova un finale grandioso, nel rivolgersi con ironia anche a colui che lo sta leggendo, nel rimprovero  rivoltogli di poter essere superficiale, dunque non dissimile da colui che mette alla berlina.  Sebbene, subito dopo, in Voglio dire, l’onestà di pensiero fa includere anche se stesso nella folla di coloro che “so che la violenza, so che l’ingiustizia… ma non basta se poi confondo patto con inciucio, se parlo con luoghi comuni…”.
            
Sì, sono stata esteticamente attraversata  pure da una lingua che mescola note gergali vivide ad un  lessico pieno, naturalmente raffinato e giusto per questo dire, da un ritmo chiaro, a volte incalzante - personalissima cifra - che risuona in profondità rendendo memorabile  la scrittura. E, come l’autore spiega nelle note, lungi dal creare simboli-stereotipi, egli lavora nell’addensare metafore, che a noi appaiono incisive come colpi di scalpello sulla statua-testo. La poesia ne emerge in profilo nitido, vero, sulla scena di frammenti sparsi che non sono altro che il nostro quotidiano di pena e di vuoto. E su questa frammentazione della realtà e dell’umano, appare fulminante, nel testo Incanto, quell’incipit: “Vendo monade con vista”, che sarebbe stato anch’esso un titolo significativo del libro, comprensivo del sarcasmo e - diciamo pure - del  divertimento del poeta, che salva lui e insieme salva anche noi, dall’annegare nel disincanto.

“Eppure la luce tiene in quella melma”, dice Guglielmin ritornando alla donna, figura che continuamente spiazza, dunque ricuce speranza - senza retorica - mentre il poeta la insegue, spiazzando anche lui  chi legge, nell’offrirgli  quella sua -di lei- parola che distrae, fruga, capovolge, addita. E ancora e sempre, crea.

Una scrittura che è specchio spietato, totale, della nostra inquietudine del vivere-pensare-comunicare, che appare come modello di una poesia del nuovo millennio, manifesto del possibile canto dell’oggi [2].


NOTE

[1] Prefazione di Paolo Donini, Piateda (Sondrio), CFR, 2013.
[2] Questa recensione, qui riprodotta su richiesta dell’autrice,  è già stata pubblicata sulla rivista Poesia, 285, 2013, pp. 56-57 e online in Blanc de ta nuque (Uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea).


[Annamaria Ferramosca]