09/08/13

Rosetta Loy, LA PRIMA MANO


Milano, Rizzoli, 2009


La prima mano del titolo è quella del padre della narratrice autobiografica; e l’ultima è quella degli alleati che entrano in Roma, distribuendo cioccolata ai bambini, tra cui la protagonista; come a indicare un itinerario di sopravvivenza, da un lato, il genitore e la presenza di un bene alimentare, e dall’altro la dimensione personale e quella storica che si affiancano nel libro, la prima prevalente rispetto alla seconda in questo volume a differenza di altri di Loy.

Con un incedere al presente anziché nei tempi passati, e la conseguente immediatezza del rivissuto, il periodo storico è quello compreso tra gli anni Venti, gli anni in cui si conoscono e si sposano il padre ingegnere e una sua impiegata e il 1945. La nascita dell’autrice è nel 1931.

Si tratta di un’esistenza vissuta in un ambiente sociale alto-borghese, nel lusso di una famiglia nondimeno orientata su valori di solidarietà reciproca. Questa normalità privilegiata contrasta con l’eccezionalità delle cronache politiche e dei tempi lunghi che sfociano nella seconda guerra mondiale gestita disastrosamente dal regime fascista.

Il padre pare dissociato, almeno superficialmente, da Mussolini, anche se la famiglia non ha a subire persecuzioni. Sfollano per sfuggire ai bombardamenti, rifugiandosi in Svizzera in un hotel.

Gli spazi ampi della casa cittadina con servitù e delle villeggiature in montagna; gli spostamenti tra il Piemonte e Roma; la dimensione familiare piuttosto serena; ma affiorano di colpo tragedie dette con reticenza come il moncherino di un amico, che perde il braccio in un incidente stradale e gli orrori della guerra, accompagnati, per un intento, si direbbe, di documentazione obiettiva, dal riscontro di momenti di umanità anche tra i tedeschi.

La storia non è solo sfondo, sfila come il treno che passa veloce in una stazione di sfollati e dentro il quale si trova la principessa Savoia.

La storia, anzi, si intreccia con la narrazione, seppure sia l’occhio di bambina, poi di adolescente che osserva, dunque privilegiando particolari affettivi più che ideologici; l’ideologia viene anzi tenuta a bada, alle spalle. Anche il finale lo conferma, con l’ultima parola, “eternità”:

“Ma il nostro impercettibile passaggio sulla terra di cui restano solo frammenti, mi sembra a volte, ma solo a volte, che avendo noi facoltà di immaginare i miliardi di esistenze dalla preistoria ai nostri giorni, ne viviamo, in realtà, di vite, un numero sterminato. Fino a proiettarci, come astronauti, nell’eternità” (p. 189).


[Roberto Bertoni]