01/03/13

Gaia Servadio, TO A DIFFERENT WORLD

Gli anni Settanta, la provincia siciliana e la scoperta del pianeta mafia nel racconto di una giornalista


Cercando negli scaffali della storia della letteratura, troviamo un numero (peraltro giustificatamente) alto di resoconti di viaggi in Sicilia. Il racconto dell’isola, della sua gente, della sua peculiarità fascinosa e problematica ha impegnato, solo per citare alcuni autori, Goethe e Maupassant e, muovendoci agli anni a noi più vicini, il grande pittore-scrittore Carlo Levi. Proprio Goethe, dopo un viaggio di due anni attraverso la penisola, sentenziò: “L'Italia senza la Sicilia non lascia immagine alcuna nell’anima: qui sta la chiave di tutto.”

L’attrazione che l’Isola ha storicamente esercitato nei confronti di intellettuali e pubblicisti in genere, nel 1977 portò Gaia Servadio (una giornalista italiana residente in Gran Bretagna) ad Acamo, cittadina della Sicilia occidentale, per la realizzazione di un documentario prodotto dalla BBC sulla mafia, anzi sulla mentalità che stava dietro ad essa.

Le peripezie che caratterizzarono il periodo che Servadio e la troupe della BBC trascorsero in Sicilia furono tali e tante da divenire esse stesse meritevoli di essere raccontate in un libro [1], che era un vero e proprio racconto di viaggio; e colse la mentalità che faceva apparire la società siciliana come un universo separato e diverso rispetto ad altri territori del mondo occidentale: una provincia di significato dove la vita quotidiana trascorreva all’ombra dell’allora onnipotente mafia.

Servadio iniziò il suo lavoro provando a cercare dei dati su cui poi basare le interviste ai personaggi più in vista della cittadina siciliana. La giornalista dovette constatare però che i poliziotti - “sempre fuori per cinque minuti” - mostravano ostilità nei confronti della troupe della BBC (televisione tedesca secondo uno dei poliziotti del luogo), non intendendo fornire i dati degli omicidi avvenuti dalla fine delle guerra in poi ad Alcamo; motivando il tutto in modo molto grossolano - “vogliamo turismo qui e non parlare di omicidi” -; e facendo trasparire un complice disinteresse verso avvenimenti che sarebbero dovuti invece essere il vero e proprio oggetto del loro lavoro. Non solo. Per tutto il periodo in cui il gruppo di inglesi lavorò ad Alcamo, le forze dell’ordine non fecero altro che molestarli. Tutto questo con grande sorpresa dei componenti della troupe, che peraltro non poterono non notare come l’unico lavoro che avessero visto svolgere agli uomini in divisa fosse il richiedere continuo dei loro passaporti, il tenerli sotto controllo nei loro spostamenti e il cercare di mettere loro i bastoni fra le ruote attraverso l’utilizzo di un’incomprensibile burocrazia. Il risultato non poteva che dare un’immagine grottesca delle forze dell’ordine, che avrebbero dovuto rappresentare lo Stato in terra di mafia. Imperdibile è ad esempio il seguente dialogo tra un poliziotto e Servadio:

“‘Tutti gli stranieri che trascorrono più di tre giorni in Italia necessitano di uno speciale permesso di residenza’.
‘Intende dire che 8 milioni di turisti ogni anno devono presentarsi all’ufficio stranieri?’.
‘Precisamente’.
‘Sono certa che sapreste farvi fronte in modo efficiente e rapido’.
‘Certo che potremmo’.
‘Ok, allora vogliamo fare domanda per un permesso di soggiorno e di lavoro per la durata di tre settimane’.

In tal senso, l’incontro con il sindaco della città fu anch’esso sintomatico di quale fosse in quel periodo la qualità - per non parlare poi della tensione antimafia - dei personaggi all’interno delle istituzioni. Intervistato, il primo cittadino si dilungava infatti nell’enumerazione delle presunte attrazioni turistiche della città, ignorando che la maggior parte dei monumenti era invece stata lasciata marcire o addirittura abbattuta. Egli, così come moltissimi dei suoi concittadini, sembrava descrivere un luogo inesistente, parlando di Alcamo come di una città moderna, ma ignorando del tutto l’assenza di parchi giochi, di spazi verdi, ecc... La giornalista ascoltava il sindaco elucubrare su misteriosi alti standards di Alcamo. Città in cui i servizi erano invece chiaramente molto scarsi, dove la corruzione aveva portato alla costruzione di 5.000 case abusive, in cui niente era stato rispettato, dalle chiese rinascimentali ai palazzi storici, e in cui niente era stato restaurato. Agli occhi di Servadio, il sindaco sembrava descrivere invece una società la cui qualità e numero di servizi erano sconosciuti persino al Mid-West statunitense.

La troupe della BBC, pertanto, provò a dare una narrazione diversa di quel mondo, intervistando una giovane parlamentare comunista, che secondo Servadio avrebbe aiutato a rappresentare la città secondo una prospettiva critica e alternativa a quella dell’uomo della strada e dei politici democristiani che avevano in mano la città. Anche questa intervista, però, si rivelò del tutto deludente. La giovane parlamentare descriveva la realtà locale come una società in cui i ragazzi avevano moltissime opportunità; e a proposito della mafia sottolineava che lei e gli altri giovani non avevano una grande esperienza di tale fenomeno, poiché ormai la mafia era sostanzialmente scomparsa [sic!]. In tutto questo, nemmeno una parola sul fatto che ad Alcamo delle fabbriche erano state costrette a chiudere a causa di minacce e richieste estorsive da parte della mafia e che, per questo, trecento lavoratori erano stati costretti poco prima a emigrare in Lussemburgo. Nessuna osservazione sul fatto che in una regione prettamente agricola si acquistavano burro olandese, latte belga, carne tedesca. Nulla. A Servadio la giovane comunista apparve come - parole sue - “Alice nel paese delle meraviglie”, e il suo atteggiamento era in fondo la ragione per cui la base e gli attivisti erano disgustati dalla politica del PCI. Pertanto, tra di essi, era forse possibile trovare opinioni diverse e quell’aderenza alla realtà che sembrava essere estranea alle forze dell’ordine, alla politica, alla maggior parte degli alcamesi.

La caratura culturale dei ragazzi di sinistra e di estrema sinistra - spesso critici del PCI - rendeva estremamente interessante ogni incontro con loro. Discutevano di politica italiana ed estera, di letteratura e di problemi sociali. Un livello di conversazione che per Servadio sarebbe stato difficile trovare in una città inglese delle stesse dimensioni di Alcamo (che allora aveva poco più di 40.000 abitanti). Nondimeno, anche tra questi ragazzi, quando si faceva notare la singolarità della violenza mafiosa, c’era qualcuno che obiettava con considerazioni del tipo: “E che dire allora della violenza nell’Irlanda del Nord?”.

In sintesi: nel modo in cui non veniva data una risposta alle domande più ovvie sulla presenza mafiosa ad Alcamo, stava proprio la risposta su quale fosse la mentalità di quella società.

Tutta la situazione era però davvero difficile da spiegare in un documentario da presentare al pubblico britannico, poiché l’essenza della storia che la troupe della BBC avrebbe raccontato divenne proprio la normalità di quella cittadina siciliana fatta di gente ordinaria, gentile, tranquilla.

Ricercando nella letteratura sulla mafia siciliana, questo aspetto della calma apparente, osservata da Servadio ad Alcamo nel 1977, non faceva che ricalcare le riflessioni compiute un secolo prima da Leopoldo Franchetti, autore, negli anni Settanta dell’Ottocento, della celebre inchiesta sulle condizioni politiche e amministrative della Sicilia. Il politico toscano, allora, aveva osservato come chi avesse avuto l’opportunità di visitare la Sicilia avrebbe ricavato inizialmente l’impressione di trovarsi in una sorta di paradiso terrestre, nel “paese del mondo dove la vita è per tutti più facile e più piacevole”. Nondimeno Franchetti, in modo molto suggestivo, scriveva come queste impressioni iniziali di chi arrivasse per la prima volta in Sicilia fossero destinate a essere sovvertite radicalmente, poiché “se egli si trattiene, se apre qualche giornale, se presta l’orecchio alle conversazioni, se interroga egli stesso, sente poco a poco tutto mutarglisi d’intorno… tutto quel profumo di fiori d’arancio e di limone principia a sapere di cadavere” [2].

Cento anni dopo le considerazioni di Franchetti, anche Gaia Servadio poté notare come, sotto l’apparente normalità vagheggiata dai politici locali, ci fosse un mondo in ebollizione, fatto di attentati, minacce, assassinii. Diversi sindaci avevano avuto problemi con la giustizia, un consigliere comunale era stato ucciso l’anno prima, e altri sei erano stati arrestati. Ad Alcamo bisognava stare attenti a parlare di speculazione edilizia, traffico di droga e sofisticazione vinicola. Infine, non bisognava pronunciare il nome Rimi, dinastia allora alla guida della mafia alcamese.

Nella società siciliana analizzata da Franchetti e da Servadio, a distanza di cento anni, risultava pretanto che l’obscenum - quello cioè che avveniva dietro la facciata - continuava a racchiudere i caratteri salienti della società. Nell’obscenum era possibile, cioè, cogliere la reale natura della realtà. In effetti, per Servadio, la ricerca della mentalità su cui si fondava la mafia divenne l’osservazione di pezzi di normalità, che magari, singolarmente presi, non avrebbero detto nulla; invece, ricomposti in un’immagine complessiva, diventavano l’oggetto della ricerca stessa, cioè quella che il sociologo Umberto Santino ha definito società mafiogena [3]. Il collante di questo mosaico appariva essere quel maledetto fatalismo che si traduceva nel fatto che gli alcamesi, anche quando si lamentavano di alcune cose, non immaginavano nemmeno la possibilità di protestare, tanto meno di cambiare alcunché. Fatalismo che permetteva di conseguenza alla gente di accettare tutto, ai mafiosi di operare e all’ingiustizia di regnare.

In questo viaggio nella provincia siciliana, un eroe, però, la giornalista inglese lo trovò nella locale sezione della Camera del Lavoro: il sindacalista Vincenzo Piscitello, un contadino che parlava lentamente in siciliano e malamente in italiano, l’unico con cui si poteva parlare apertamente dell’obscenum alcamese, e che mostrava il senso civico e la forza morale estranei a tanta parte dei suoi concittadini. Da poco, ad esempio, i proprietari di una fabbrica avevano deciso di denunciare i taglieggiatori mafiosi; tuttavia, alla fine, erano stati costretti a chiudere. Vincenzo era intervenuto, aveva convinto i lavoratori a occupare l’azienda, a continuare la produzione e a fare una manifestazione contro la mafia; spiegando loro come nel silenzio avrebbero avuto la meglio i mafiosi, mentre se si fosse resa pubblica la questione si sarebbe ottenuto di tenere in vita l’impresa, cosa che puntualmente avvenne.

Nondimeno, questa storia appariva come la nota stonata in una sinfonia fatta di istituzioni inadeguate, corrotte, incapaci; di una popolazione apatica, etnocentrica, che tra l’essere e l’avere propendeva certamente per quest’ultimo, ostinata nella pratica apologetica della disonestà, incapace di comprendere il benessere generale prodotto dalla legalità. Una società per molti versi tribale, dove il clan parentale-amicale era l’unico punto di riferimento. Una società ambigua, omertosa, collusa, inconsapevole, irrimediabilmente sicilianista. Proprio per questo, durante tutto il periodo delle riprese, la giornalista racconta di come spesso si divertì a rompere le regole della comunità locale, ritenendo che ciò potesse avere un effetto educativo nei confronti della gente del luogo. D’altra parte, ciò che tale società aveva prodotto era paurosamente evidente: la corruzione e la violenza accettate come moneta corrente nelle transazioni sociali, la tragedia dell’emigrazione e del forzato abbandono della propria terra, la devastazione ambientale che aveva ferito con il cemento il territorio che due secoli prima aveva incantato Goethe. Di questa terra, Servadio provò a cogliere l’essenza, l’anima; e di essa, malgrado tutto, finì per innamorarsi.


NOTE

[1] G. Servadio, To a different world, Londra, Hamish Hamilton, 1979.
[2] L. Franchetti, Condizioni Politiche e Amministrative della Sicilia (1877), Roma, Donzelli, 2011, p.6.
[3] U. Santino, Atti del convegno “Inferni territoriali e paradisi finanziari”, Venezia 11-13 ottobre 1996, pubblicato in Droga: le alternative possibili, a cura di M. Campedelli e L. Pepino, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1997, pp. 138-48.


[Francesco Messina]