Cercando negli scaffali della storia
della letteratura, troviamo un numero (peraltro giustificatamente) alto di resoconti
di viaggi in Sicilia. Il racconto dell’isola, della sua gente, della sua
peculiarità fascinosa e problematica ha impegnato, solo per citare alcuni
autori, Goethe e Maupassant e, muovendoci agli anni a noi più vicini, il grande
pittore-scrittore Carlo Levi. Proprio Goethe, dopo un viaggio di due anni
attraverso la penisola, sentenziò: “L'Italia senza la Sicilia non lascia
immagine alcuna nell’anima: qui sta la chiave di tutto.”
L’attrazione che l’Isola ha storicamente
esercitato nei confronti di intellettuali e pubblicisti in genere, nel 1977
portò Gaia Servadio (una giornalista italiana residente in Gran Bretagna) ad Acamo, cittadina della Sicilia occidentale, per la realizzazione di un
documentario prodotto dalla BBC sulla mafia, anzi sulla mentalità che stava dietro
ad essa.
Le peripezie che caratterizzarono il
periodo che Servadio e la troupe
della BBC trascorsero in Sicilia furono tali e tante da divenire esse stesse meritevoli
di essere raccontate in un libro [1], che era un vero e proprio racconto di viaggio; e colse la mentalità che faceva apparire la società siciliana come
un universo separato e diverso rispetto ad altri territori del mondo
occidentale: una provincia di significato dove la vita quotidiana trascorreva
all’ombra dell’allora onnipotente mafia.
Servadio iniziò il suo lavoro provando a
cercare dei dati su cui poi basare le interviste ai personaggi più in vista
della cittadina siciliana. La giornalista dovette constatare però che i
poliziotti - “sempre fuori per cinque minuti” - mostravano ostilità nei
confronti della troupe della BBC
(televisione tedesca secondo uno dei poliziotti del luogo), non intendendo
fornire i dati degli omicidi avvenuti dalla fine delle guerra in poi ad Alcamo;
motivando il tutto in modo molto grossolano - “vogliamo turismo qui e non
parlare di omicidi” -; e facendo trasparire un complice disinteresse verso
avvenimenti che sarebbero dovuti invece essere il vero e proprio oggetto del
loro lavoro. Non solo. Per tutto il periodo in cui il gruppo di inglesi lavorò
ad Alcamo, le forze dell’ordine non fecero altro che molestarli. Tutto questo
con grande sorpresa dei componenti della troupe,
che peraltro non poterono non notare come l’unico lavoro che avessero visto
svolgere agli uomini in divisa fosse il richiedere continuo dei loro passaporti,
il tenerli sotto controllo nei loro spostamenti e il cercare di mettere loro i
bastoni fra le ruote attraverso l’utilizzo di un’incomprensibile burocrazia. Il
risultato non poteva che dare un’immagine grottesca delle forze dell’ordine, che
avrebbero dovuto rappresentare lo Stato in terra di mafia. Imperdibile è ad
esempio il seguente dialogo tra un poliziotto e Servadio:
“‘Tutti gli stranieri che trascorrono
più di tre giorni in Italia necessitano di uno speciale permesso di residenza’.
‘Intende dire che 8 milioni di turisti
ogni anno devono presentarsi all’ufficio stranieri?’.
‘Precisamente’.
‘Sono certa che sapreste farvi fronte in
modo efficiente e rapido’.
‘Certo che potremmo’.
‘Ok, allora vogliamo fare domanda per un
permesso di soggiorno e di lavoro per la durata di tre settimane’”.
In tal senso, l’incontro con il sindaco
della città fu anch’esso sintomatico di quale fosse in quel periodo la qualità -
per non parlare poi della tensione antimafia - dei personaggi all’interno delle
istituzioni. Intervistato, il primo cittadino si dilungava infatti
nell’enumerazione delle presunte attrazioni turistiche della città, ignorando
che la maggior parte dei monumenti era invece stata lasciata marcire o addirittura
abbattuta. Egli, così come moltissimi dei suoi concittadini, sembrava
descrivere un luogo inesistente, parlando di Alcamo come di una città moderna,
ma ignorando del tutto l’assenza di parchi giochi, di spazi verdi, ecc... La
giornalista ascoltava il sindaco elucubrare su misteriosi alti standards di Alcamo. Città in cui i
servizi erano invece chiaramente molto scarsi, dove la corruzione aveva portato
alla costruzione di 5.000 case abusive, in cui niente era stato rispettato,
dalle chiese rinascimentali ai palazzi storici, e in cui niente era stato
restaurato. Agli occhi di Servadio, il sindaco sembrava descrivere invece una
società la cui qualità e numero di servizi erano sconosciuti persino al Mid-West statunitense.
La troupe
della BBC, pertanto, provò a dare una narrazione diversa di quel mondo,
intervistando una giovane parlamentare comunista, che secondo Servadio avrebbe
aiutato a rappresentare la città secondo una prospettiva critica e alternativa a
quella dell’uomo della strada e dei politici democristiani che avevano in mano
la città. Anche questa intervista, però, si rivelò del tutto deludente. La
giovane parlamentare descriveva la realtà locale come una società in cui i
ragazzi avevano moltissime opportunità; e a proposito della mafia sottolineava
che lei e gli altri giovani non avevano una grande esperienza di tale fenomeno,
poiché ormai la mafia era sostanzialmente scomparsa [sic!]. In tutto questo, nemmeno una parola sul fatto che ad Alcamo
delle fabbriche erano state costrette a chiudere a causa di minacce e richieste
estorsive da parte della mafia e che, per questo, trecento lavoratori erano
stati costretti poco prima a emigrare in Lussemburgo. Nessuna osservazione sul
fatto che in una regione prettamente agricola si acquistavano burro olandese,
latte belga, carne tedesca. Nulla. A Servadio la giovane comunista apparve come
- parole sue - “Alice nel paese delle meraviglie”, e il suo atteggiamento era
in fondo la ragione per cui la base e gli attivisti erano disgustati dalla
politica del PCI. Pertanto, tra di essi, era forse possibile trovare opinioni
diverse e quell’aderenza alla realtà che sembrava essere estranea alle forze
dell’ordine, alla politica, alla maggior parte degli alcamesi.
La caratura culturale dei ragazzi di
sinistra e di estrema sinistra - spesso critici del PCI - rendeva estremamente
interessante ogni incontro con loro. Discutevano di politica italiana ed
estera, di letteratura e di problemi sociali. Un livello di conversazione che
per Servadio sarebbe stato difficile trovare in una città inglese delle stesse
dimensioni di Alcamo (che allora aveva poco più di 40.000 abitanti). Nondimeno, anche tra questi ragazzi, quando si faceva notare la singolarità della violenza
mafiosa, c’era qualcuno che obiettava con considerazioni del tipo: “E che dire
allora della violenza nell’Irlanda del Nord?”.
In sintesi: nel modo in cui non veniva
data una risposta alle domande più ovvie sulla presenza mafiosa ad Alcamo, stava
proprio la risposta su quale fosse la mentalità di quella società.
Tutta la situazione era però davvero
difficile da spiegare in un documentario da presentare al pubblico britannico,
poiché l’essenza della storia che la troupe
della BBC avrebbe raccontato divenne proprio la normalità di quella cittadina
siciliana fatta di gente ordinaria, gentile, tranquilla.
Ricercando nella letteratura sulla mafia
siciliana, questo aspetto della calma apparente, osservata da Servadio ad Alcamo
nel 1977, non faceva che ricalcare le riflessioni compiute un secolo prima da
Leopoldo Franchetti, autore, negli anni Settanta dell’Ottocento, della celebre
inchiesta sulle condizioni politiche e amministrative della Sicilia. Il
politico toscano, allora, aveva osservato come chi avesse avuto l’opportunità di
visitare la Sicilia avrebbe ricavato inizialmente l’impressione di trovarsi in una
sorta di paradiso terrestre, nel “paese del mondo dove la vita è per tutti più
facile e più piacevole”. Nondimeno Franchetti, in modo molto suggestivo, scriveva
come queste impressioni iniziali di chi arrivasse per la prima volta in Sicilia
fossero destinate a essere sovvertite radicalmente, poiché “se egli si
trattiene, se apre qualche giornale, se presta l’orecchio alle conversazioni,
se interroga egli stesso, sente poco a poco tutto mutarglisi d’intorno… tutto
quel profumo di fiori d’arancio e di limone principia a sapere di cadavere” [2].
Cento anni dopo le considerazioni di
Franchetti, anche Gaia Servadio poté notare come, sotto l’apparente normalità
vagheggiata dai politici locali, ci fosse un mondo in ebollizione, fatto di
attentati, minacce, assassinii. Diversi sindaci avevano avuto problemi con la
giustizia, un consigliere comunale era stato ucciso l’anno prima, e altri sei
erano stati arrestati. Ad Alcamo bisognava stare attenti a parlare di
speculazione edilizia, traffico di droga e sofisticazione vinicola. Infine, non
bisognava pronunciare il nome Rimi, dinastia allora alla guida della mafia
alcamese.
Nella società siciliana analizzata da
Franchetti e da Servadio, a distanza di cento anni, risultava pretanto che l’obscenum - quello cioè che avveniva dietro la facciata - continuava a racchiudere i caratteri salienti della società. Nell’obscenum era possibile, cioè, cogliere la
reale natura della realtà. In effetti, per Servadio, la ricerca della mentalità
su cui si fondava la mafia divenne l’osservazione di pezzi di normalità, che
magari, singolarmente presi, non avrebbero detto nulla; invece, ricomposti in
un’immagine complessiva, diventavano l’oggetto della ricerca stessa, cioè
quella che il sociologo Umberto Santino ha definito società mafiogena [3]. Il collante di questo mosaico appariva essere quel
maledetto fatalismo che si traduceva nel fatto che gli alcamesi, anche quando
si lamentavano di alcune cose, non immaginavano nemmeno la possibilità di
protestare, tanto meno di cambiare alcunché. Fatalismo che permetteva di
conseguenza alla gente di accettare tutto, ai mafiosi di operare e
all’ingiustizia di regnare.
In questo viaggio nella provincia
siciliana, un eroe, però, la giornalista inglese lo trovò nella locale sezione
della Camera del Lavoro: il sindacalista Vincenzo Piscitello, un contadino che
parlava lentamente in siciliano e malamente in italiano, l’unico con cui si
poteva parlare apertamente dell’obscenum
alcamese, e che mostrava il senso civico e la forza morale estranei a tanta
parte dei suoi concittadini. Da poco, ad esempio, i proprietari di una
fabbrica avevano deciso di denunciare i taglieggiatori mafiosi; tuttavia, alla
fine, erano stati costretti a chiudere. Vincenzo era intervenuto, aveva
convinto i lavoratori a occupare l’azienda, a continuare la produzione e a fare
una manifestazione contro la mafia; spiegando loro come nel silenzio avrebbero
avuto la meglio i mafiosi, mentre se si fosse resa pubblica la questione si
sarebbe ottenuto di tenere in vita l’impresa, cosa che puntualmente avvenne.
Nondimeno, questa storia appariva come
la nota stonata in una sinfonia fatta di istituzioni inadeguate, corrotte,
incapaci; di una popolazione apatica, etnocentrica, che tra l’essere e l’avere propendeva
certamente per quest’ultimo, ostinata nella pratica apologetica della
disonestà, incapace di comprendere il benessere generale prodotto dalla
legalità. Una società per molti versi tribale, dove il clan parentale-amicale era l’unico punto di riferimento. Una
società ambigua, omertosa, collusa, inconsapevole, irrimediabilmente sicilianista.
Proprio per questo, durante tutto il periodo delle riprese, la giornalista racconta
di come spesso si divertì a rompere le regole della comunità locale, ritenendo
che ciò potesse avere un effetto educativo nei confronti della gente del luogo.
D’altra parte, ciò che tale società aveva prodotto era paurosamente evidente:
la corruzione e la violenza accettate come moneta corrente nelle transazioni
sociali, la tragedia dell’emigrazione e del forzato abbandono della propria
terra, la devastazione ambientale che aveva ferito con il cemento il territorio
che due secoli prima aveva incantato Goethe. Di questa terra, Servadio provò a
cogliere l’essenza, l’anima; e di essa, malgrado tutto, finì per innamorarsi.
[1] G. Servadio, To a different world,
Londra, Hamish Hamilton, 1979.
[2] L.
Franchetti, Condizioni Politiche e Amministrative della Sicilia (1877),
Roma, Donzelli, 2011, p.6.
[3] U.
Santino, Atti del convegno “Inferni territoriali e paradisi finanziari”,
Venezia 11-13 ottobre 1996, pubblicato in Droga: le alternative possibili,
a cura di M. Campedelli e L. Pepino, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1997, pp.
138-48.