“Allegoria”, XXIII.64, 2011, pp. 97-124
Simonetti prende in esame, dapprima, voci isolate di chi, al di là
delle testimonianze dei rappresentanti del partito armato (in primis Curcio e Moretti), ha posto il terrorismo in ambito
narrativo in luce (brani di Tabucchi e Sciascia, per esempio) o in primo piano
(Balestrini) negli anni Ottanta e Novanta, per poi analizzare una maggior
prominenza di questo tema nella narrativa del secolo attuale.
Riguardo le testimonianze, il punto di vista di Simonetta è che esse
siano state in larga misura funzionali al sistema di potere che sembrerebbe
emarginarle:
“In molti, nella società civile, hanno protestato per lo spazio che l’editoria
ha concesso e concede alle voci degli ex terroristi; in pochi si sono resi
conto che quelle voci erano funzionali a una gigantesca integrazione. Per
quanto a volte sgradevoli, per quanto più o meno interessanti, queste
testimonianze finiscono quasi tutte per avere un valore rassicurante: per chi
le pronuncia e per chi le ascolta” (p. 102).
Nell’indagine condotta da Simonetti su vari testi autobiografici o
pseudobiografici scritti tra anni Novante e primi anni Duemila, parrebbero esserci
una relativa estirpazione del delitto e un percorso di conversione da
terrorismo a non terrorismo: “la rimozione della violenza agita in prima
persona, le ellissi, gli eufemismi, […] assenza di realismo, funzionale
all’autogiustificazione” (p. 105).
La “transizione a una
fase ulteriore” è riposta in altri testi dello stesso periodo e successivi, tra
cui quelli di Cesare Battisti, in cui “la fortuna della testimonianza sugli
anni di piombo, pilotata o no, cede progressivamente spazio al noir e a
esperimenti contigui, dove il confine tra fiction e non fiction è
volutamente eroso, e le trame tendono ad
essere ambientate nel presente piuttosto che nel passato”, col che il
terrorismo diventa un “tema narrativo di successo” (p. 107). SI e verificato
che vari fenomeni di riflusso e modificazione degli atteggiamenti verso la
politica abbiano “da un lato svuotato ed estetizzato la violenza, dall’altro
reso l’azione estrema un ingrediente appetitoso per ogni impresa narrativa: non
serve più la presenza di un’aura, è sufficiente la miscela di violenza e di
mistero” (p. 110).
La diagnosi è anche
quella si una passività di certa narrativa nei confronti degli schemi
mediatici:
“Resta difficile
sottrarsi all’impressione che, almeno presso gli autori più giovani, la
rilettura degli anni Settanta si presti a raccontare non tanto dei fatti,
quanto delle narrazioni precedenti (non solo letterarie); a riprodurre, magari patinandole,
immagini famose; a girare intorno a interpretazioni e a oggetti immobili,
piuttosto che ad elaborarne di nuovi. Mentre sembra parlare di uno scottante
passato, molta narrativa contemporanea parla forse del modo in cui i mass media agiscono nel presente; del
modo in cui lo assorbono nella dimensione estetica per ottenerne suggestioni,
emblemi e miti” (p. 117).
In breve anche il
romanzo su un problema di responsabilità civile e politica come quello del
terrorismo e della sua critica viene riassorbito all’interno del sistema dei
consumi come prodotto di intrattenimento.
[Roberto Bertoni]