[Not a senbei, but Japanese cakes (Kyoto 2012). Foto Rb]
Banana Yoshimoto, Tsugumi. Prima ed. Giapponese, 1989. Traduzione di A.G.
Gerevini. Milano, Feltrinelli, 2010
Il Postscriptum indica che il
personaggio principale, che dà il titolo al volume, non è la voce narrante
in prima persona, ma un alter ego dell’autrice;
l’intensione era riferire si un’estate trascorsa al mare “perché volevo
lasciare impresse da qualche parte le sensazioni di quei giorni: quel ‘non
esserci niente’” in un luogo in cui “non succede niente di speciale” (p. 153).
Se, come si rilevò
agli esordi di Yoshimoto, la sua cifra era il minimalismo, questa postfazione
lo conferma e lo giustifica. Tuttavia, come già abbiamo avuto occasione di
osservare, e com’è notazione ormai propria delle recensioni e della critica, c’è
molto di più nelle narrazione della scrittrice giapponese, che si pone di
fronte a scelte etiche che li per li sembrano di non alta entità, ma si rivelano poi tali da mettere in gioco un’intera
esistenza. Yoshimoto si confronta col rapporto tra la vita e la morte; e penetra nelle
psicologie dei personaggi e nelle loro motivazioni con tatto e leggerezza che
portano in profondità.
L’intreccio è
fondato sul rapporto di amicizia tra due cugine nella tarda adolescenza: la voce
narrante, Maria, una ragazza assennata e in accordo col mondo, e Tsugumi,
coetanea ispida, ferita da una malattia cui cerca di reagire con cattiveria e
offendendo gli altri. Forse ciò che più stupisce, con probabile riferimento
alla pazienza e all’accettazione buddhiste, è quanto i familiari, soprattutto
la madre e la sorella minore Yoko, accettino Tsugumi e manifestino pazienza nei
suoi confronti. La relazione con Maria è piuttosto complessa, ma si risolve in
un’amicizia in cui l’affetto vince sulla repulsione; e la compassione per la
condizione di inferma della protagonista, senza essere venata di condiscendenza,
prevale. In fin di vita, Tsugumi riesce a salvarsi, invogliata a lottare contro la
malattia in particolare da un innamoramento per Kyōichi, un ragazzo che le è
devoto e le è simile come personalità.
Leggiamo nelle
ultime pagine la lettera che, convinta di morire, scrive a Maria: negli ultimi
capoversi le parole: “La mia vita è stata proprio insignificante” (p. 152). Uno dei meriti
di Yoshimoto è quello di fingere di riferire vite “insignificanti”,
mentre invece, dietro l’apparente banalità, si dipanano il dolore, le passioni,
le difficoltà, che spiegano i comportamenti in superficie astrusi e approfondiscono
i ritratti umani delineati.
È vero che la
natura, soprattutto il mare, è presente dall’inizio alla fine del romanzo, ma
ha qualcosa di più di una notazione d’ambiente e di un ricordo gradevole di una
vacanza di Maria nel luogo natio dove ancora vive Tsugumi. È correlativo
oggettivo, similitudine delle sensazioni, osservazione di dettagli da cui si dilatano
le emozioni. Un esempio: “Quando uscii era già calata la sera. Nel vento fresco
sentii un leggero odore di salsedine. In quella penisola era come se il mare
avvolgesse interamente la città. Mentre camminavo nel buio della notte, mi
venne una leggera voglia di piangere” (p. 135).
Piccoli oggetti simbolici,
come un senbei [1] non consumato da
Maria e dal padre, nonostante ne siano golosi, ma lasciato sul tavolo “per la
mamma [...] a testimoniare la felicità della nostra famiglia” (p. 38); non una
frase da libro Cuore, dato che questa
serenità è frutto di sforzo, dolore, emarginazione dalla piccola comunità del
paese a causa del fatto che i due genitori vivono insieme, ma lui è separato e
la moglie non gli concede il divorzio che verso metà romanzo, infine i due amanti e la figlia decidono
di trasferirsi a Tokyo.
Un modo
descrittivo e originale di rendere i riti di passaggio dell’identità: “D’un
tratto mi ricordai che [...] ero cresciuta, che non vivevo più in quella terra
e che frequentavo l’università a Tokyo. Era davvero incredibile. La mia mano abbandonata nel buio sembrava un
oggetto sconosciuto” (p. 62) [2].
NOTE
[1] Cracker di
riso.
[2] Corsivo nostro.
[Roberto Bertoni]