05/11/12

Amaranta Sbardella, SEI POESIE

1. 

AMORE UNICO

Ogni volta, dopo l’amore, piangeva.
Piangeva ogni volta, dopo aver fatto l’amore.
Dopo averla amata, piangeva, ogni sera
Ogni notte, all’ombra della luna
E al riparo dal solleone.

Le prime timide lacrime, sconquassanti,
poi i singhiozzi profondi di un grido di morte,
la forza irruenta della potenza inespressa,
della liberazione e della prigionia di un corpo d’acqua
e creta plasmato da altri.

Interrogava un Dio, chiedeva un’altra volta,
implorante e affranto per quel mistero
intenso; impotente, univa il proprio grido
di amante respinto dall’amore
al respiro del tempo che amore non conosceva,

ma istanti e fughe. Ogni lacrima tratteneva a sé
una goccia di violata esistenza, passione,
e scorreva nel corpo ritratto e convulso,
timido mostro di tenera compassione,
carne dolorante e svuotata, interrogante.

Lei, nuda, muta, piena,
gli cingeva le spalle come la madre inerme
davanti al figlio adolescente, addolorata e stanca,
senza osservare il suo corpo lacero,
senza comprendere.

Chaque fois il pleurait, après l’amour
Chaque fois il pleurait, après avoir fait de l’amour.


2. 

AD OCCHI SPENTI

Le onde lascive increspano
i fianchi della brughiera
dove un’anatra senza tempo
annaspa e s’immerge.
E il vento obbedisce
al sommesso lamento
che da secoli
lima gli steli.
Potrei essere ovunque,
la sinfonia del vento
non ha lingua,
ma in fondo alla palpebra
il chiarore dello spettro ceruleo
mi dice che non potrei
essere altrove,
qui, dove il respiro non
conta,
placo forse il mio tarlo
che tace e non stride più
come cicala al sole.

Forse? domanda l’anima al tarlo che sgretola
Forse, rispondono le callune
Forse, ripete con sarcasmo l’angoscia che logora

Perché se tutto io vedo e sento, respiro,
se tutto sprofonda nel prisma della tristezza
schiaccerò il respiro di dio
con la mia logora mente.
     

3. 

a D.

C’era una volta, tanti anni fa
C’era un tempo, secoli fa

 ricordi?

si rideva tutti e quattro sulla escort
la storiella e la barzelletta
verso la rocca coi carrubi

lo ricordi?

s’era piccoli,
s’era ingenui,
s’era sereni,

te lo ricordi?

lo immaginavi tu,
dimmi,
che saremmo diventati
quattro atomi alla deriva
pronti a scontrarsi
con rancori e frustrazioni.

Dimmi se ricordi,
perché nella nostra incapacità
di essere ancora noi
di capirci
non ci sia il baratro,
ma la stessa ghiaia di vermetti
e lucertole dove correvamo insieme.


4. 

a I.

Ritorni in uno sguardo dimenticato,
nella foto di un abbraccio estraneo,
riemergi dalla tomba nella notte d’autunno,
in una foto di amore estraneo.

Osservi da là, cogli stessi occhi,
non più miei, non più audaci,
le stesse palpebre addolorate e curiose
che chiedevano agli altri perdono
e il permesso per la voce contenuta,
sommessa, rappresa nel grano della tua terra
e timida come vento che carezza i tuoi ulivi;
sussurro che conteneva il grido della miseria
e lo cullava al suono incantatore della singer,
lo nutriva come l’altro figlio mai avuto
perché l’amasse senza vagire, senza piangere;
sospiro nelle fibre di un vestitino da bambola danzante,
in un una bianca balera antica cent’anni
che ricorda ancora le incerte mosse della bimba
il giorno prima di un addio inatteso.

Cosa hai dimenticato allora tra i ricci di mare,
tra le zolle di terra, le spighe del grecale,
l’erba bruciata dei tuoi dolci occhi,
la spuma delle onde dei capelli crespi,
e le mandorle acerbe che celano il segreto
del tuo sguardo infiammato, del mio sguardo rapito di una foto
di qualche anno fa.


5. 

AMOR DE LOHN

Sopravvivo.
Sapendoti lontano,
tra i flutti di una città ostile,
marinaio triste arenato su un faro.
Io in balia delle luci, estasiata,
di noi immemore,
all’erta,
temendo l’attacco della nostalgica preda
che mi condurrà verso l’abisso.

Ma l’ombra dei peli biondi e inermi
dalle vellutate ombre di uno sfumato neon arancione
risveglia la memoria del corpo,
dei nostri corpi avvinghiati,
addormentati l’uno sull’altro.
Il mostro muggente ha vinto,
e prigioniera delle lacrime nere
sprofonderò nel labirinto della mia fragile solitudine.


6. 

FILI D’ADDIO

Avevo due nonne.
Una l’ho persa per il male del secolo.
L’altra quando era vicina al secolo.
Non ci siamo dette addio.
Ora ci salutiamo nel camposanto
Sotto il sole che lacera le mie lacrime.
Per me i vostri piedi sono morti.
Piedi uniti da un laccio,
caviglie gonfie, che hanno visto i miei abbracci
di bambina e mi sono corse incontro
nelle domeniche di ogni stagione.


Una fila di croci in una collina
Tra caseggiati di bare
E cappelle sontuose
Ti riconosco dai sassi bianchi
Un numero tra una donna con la bandiera della pace
E una maestra con i saluti dei suoi alunni.
Scorro le date,
cerco la tua,
cammino sui passati
e non riesco crederli.