Dal Note-book di Emily Dickinson (1869-1886)
Non posso chiamarlo mondo, Higginson. In certe afose notti estive lo definirei, con indulgenza, una pista di sabbia tormentata dalla presenza del vento.
Essere me stessa: non chiedo niente di meno. Poi, di notte, separandomi, svelare i mari.
Quando a mezzanotte un soffio di vento piega le foglie lucenti dei meli, solo i versi possono descriverlo, impedendomi di morire di gioia.
Che straordinaria avventura non avere una biografia ma essere soltanto il rumore di una penna che scorre nella carta sopra il tavolo di una piccola stanza del New England…
Rileggo le poesie di Po Chu I. Non c'è nulla, nel regno vivente, di paragonabile alla loro bellezza. Anzi, il mondo offre solo una pallida copia delle emozioni che mi suggeriscono.
(Sogno di una notte d'inverno, 1858)
La mia vita non si accorda a niente. È un abito bianco, in fondo alla stanza, che produce versi sconosciuti ai miei stessi amici.
Il semplice respiro: gioia sufficiente, estasi senza limiti. Ma perché l'estasi dura meno del respiro?
Avete mai pensato, Higginson, che i dolci abbiano forma circolare perché solo la forma del cerchio esprime quella dolcezza infinita a cui il gusto può appena alludere?
Il suo cuore (di mio padre, dico) era puro e terribile. Non ne conosco l'uguale.
Il compleanno, oggi: quarant'anni di fantasmi. Una gioia perfetta, paralizzante come la disperazione. Un sonno lunghissimo ed eccezionale, che non accenna all'alba. Un sogno che non posso ricordare: miglia e miglia che il piede affaticato percorre a stento, quando il buio divora la strada. Ma in un sussurro arrivo alla casa dicendo una sola parola - Salva! Al riparo dalla notte, ascolto i versi degli uccelli come litanie non umane che sono costretta a trascrivere.
Non c'è nessun altro qui. Sono io il pensiero di questi muri. La natura è una casa abitata da spettri, ma l'arte la casa che cerca la parola degli spet¬tri.
1862: 366 poesie. Sono fragilissima: trattatemi come porcellana.
Che faresti di me, Signore, se arrivassi da te senza il mio corpo? Mi puniresti come fece mio padre con il mio spirito?
Combattere la carestia con questa penna aguzza. Contare i segni sparsi sulla carta e quelli sotto la terra.
Vestita di bianco, non potevo presentarmi al funerale di mio padre. È stato meglio così. Meglio sola. Meglio lontana da quel cimitero in cui celebrano la sepoltura di qualcosa che è stato, in un tempo molto remoto, un uomo austero e indimenticabile. Bianco! Bizzarro colore, più adatto ai pesci che agli uomini.
Sue, devi permettermi che sia io ad andare per prima, perché io vivo nel mare da sempre e da sempre conosco la strada.
L'amico che mi aveva insegnato l'immortalità è morto tacendomi l'ultima sillaba del segreto.
Mi preparo a lungo. Cerco il buio per loro. Finché non sarò pronta, e allora partirò. Non posso più stare in questo mondo di vivi. I miei versi respirano con l'altra luce.
Separata dal mondo, come una di quelle farfalle che si gettano a capofitto in un volo che non comprendono.
Questa è l'ora di piombo: chi le sopravvive la ricorda come gli assiderati rammentano la neve: prima freddo, poi stupore, infine inerzia.
Arretrare di qualche secolo, per correggere Shakespeare.
L'Immortalità mi è sempre apparsa come una lettera a cui nessuna mano può rispondere con una lettera altrettanto efficace.
Bisogna fare attenzione a quanto diciamo, perché le parole non tornano indietro. Restano come stigmate. Abbandonata con noncuranza su un foglio, la parola può rendere sacro lo sguardo anche quando il suo autore giacerà raggrinzito sottoterra, ripie¬gato per sempre.
Felice se non incontrerai né incidenti né morte. Ma se li incon¬trassi non temere. Ci sono vite assolutamente impossibili che, proprio per questa impossibilità, vengono vissute.
Aveva in mano un messaggio. Capii, dal suo volto, che eravamo tutti perduti. Ma in quel tutti mi sembrò di avvertire un brivido di irreparabile ingiustizia.
La luce che non ha mai brillato nel cielo e nella terra è quella che ogni giorno mi viene offerta dalla creazione di un verso. Se potessi vedere quello che vorrei vedere e udire quanto potrei temere, la musica sarebbe vicina (come la pazzia).
Fiori di melo, a mezzanotte: l'aria è solo profumo. Esseri straordinari sono morti. Ma vissero.
Quali specie non umane bussano oggi alla mia porta?
Due gigli: il mio biglietto da visita.
Chiamatele, se volete, immagini. Ma ricordate che si nascondono più di quanto appaiano. E, quando appaiono, i versi le cancellano e ne lasciano l'eco.
Non ebbe una fase iniziale. Partì dalla vetta. Esseri come lui si innalzano ma non discendono più. Il suo requiem è un'estasi: alba e notte mescolate insieme. Perché avrebbe dovuto aspettare? Ha rinunciato alle tenebre lasciandole a noi.
Bambina, non amavo mia madre ma il modo con cui indossava quel lungo, lieve, vaporoso abito bianco. Allora pensavo che morire prima di aver temuto la morte fosse la delusione più grande. Oggi - donna scalza, nuda come un osso - so, vivendo, di sottrarre sostanza all'estasi.
Sempre più trasparente, sempre meno adulta. Questa sera potrei perdere la mia guancia nella tua mano - se vi fosse una mia guancia e una tua mano.
Adoro il silenzio - non l'interruzione del suono. L'intera verità è come un lenzuolo storto e senza luce, sotto cui cerco di dormire.
La lettera: una gioia terrena che è sempre stata negata agli dèi.
Hélène Hunt era l'unica a sapere che io fossi poeta. Chiusa nella tomba con questo segreto, che ora condivido solo con me stessa, Hélène Hunt mi aspetta.
Lasciami andare! Sta spuntando il giorno. Non basta la febbre. Fa esplodere il corpo. Occorre il corpo. Ma chi me lo modella? Io stessa? Oh, le brevi frasi a cui ho dato un inizio e mai una fine!
Sento la morte di ogni essere umano come una forma di freddo. Il freddo a volte folgora, a volte paralizza. Cosa affiderò alle mani di colui che Gilbert chiama l'uomo nero? Cosa consegnerò all'oscuro straniero? Suoni che appena sopportano peso di parole...
In una vita che ha smesso di immaginarci, io e te non dovremmo trovarci tranquilli dentro una casa ma esposti al sale dell'ocea¬no. Per chi è fedele l'assenza non è altro che il condensarsi della presenza. Per gli altri... Ma non ci sono gli altri.
La camera aperta, le tende che oscillano: orrendo il riposo, nella stanza ondosa. E se la casa fosse un equivoco dell'architettura?
Tutti i territori, zero. Uno più uno, uno.
Il due è bandìto dal desiderio.
Provate a chiamarmi, provate a volermi: io vi risponderò con biglietti, come una cieca che non può altro, che sarebbe folgora¬ta dal suono delle vostre voci vive. Perdonatemi...
Higginson mi parla dello stare abbandonati in un clima come quello di Palermo: mi parla del languore che confonde la testa e ipnotizza, come un profumo inebriante di zagare e limoni. Io sento lo stesso languore ma non ho bisogno di viaggi per provar¬lo: è già qui, nella mia mente.
Spalancare la stanza al sole ma poi coprire i mobili, in modo che il legno non sia rovinato dalla luce. La luce appartiene, oggi, a quelle straordinarie illusioni di cui dovremo presto fare a meno. Io non esisterei se la luce non mi vedesse.
Non c'è nulla qui. Luce è perfettamente bianca. Il tavolo riflette me stessa. La carta è una cavità da cui posso essere accolta, un grembo non nero, un ghiaccio tiepido.
Tutti esitano, tranne me. Anche se la mia ispirazione non va quasi mai oltre tre righe. Ma è con toni bassi, piccoli e paurosi, che il vento agita l'erba.
Noi dietro noi: sussulto spaventoso. Né camera né casa. Inutile sbarrare le porte. Bisogna chiudere gli occhi. Diventare la parte irriducibile dell'essere divino.
La tua seconda visita, vent'anni dopo, non mi ha folgorato quanto hanno potuto farlo, minuto dopo minuto, questi vent'anni di attesa. Fu allora, quando non mi amasti e non mi perdesti, che il punto avvolse il cerchio.
L'ultimo aprile in cui ha vissuto mio padre ci sono state troppe tempeste di neve. Gli eredi degli uccelli che, intirizzi¬ti, egli nutrì allora con amore, sono qui, di nuovo, a cantare, in primavera, all'oscuro del nome e del destino del benefattore dei loro padri.
Mi chiedo se abbandoniamo mai l'Improbabile - questa dimora così felice... Io e il silenzio: naufragati quaggiù, come una stirpe straniera.
Sì, vidi il mio paradiso: era scuro, ma di rara bellezza.
La settimana scorsa ho sognato che eri morto. Avevamo scolpito una statua a tua somiglianza e mi era stato chiesto di scoprirla. Io dissi che non avrei fatto, mentre eri morto e i tuoi occhi non avrebbero potuto perdonarmi, quello che non avevo mai fatto in vita.
Mi spiace informarvi che ieri, alle tre di notte, la mia mente si è bloccata ed è felicemente all'oscuro di quanto accade nel mondo. Il cervello, adesso, comincia a ridere - e io balbetto frasi oscure. Avanti e indietro, avanti e indietro, nella testa, finché il senso si spezza e i pensieri si sbriciolano come legno fradicio...
Strano come, benché cerchi di farlo, non possa mai scrivere una frase identica a un'altra.
Pensavamo tu fossi stato ucciso nella strada da Cambridge a Boston, per via dell'orologio, o che tu fossi molto malato e, nella febbre del delirio, incapace di scriverci…
Questa polvere quieta fu signore e signori, giovani e fanciulle. Fu riso, arte, sospiro, qualche ricciolo. Questa polvere, in cui molte penne intingono ancora l'inchiostro.
Vedova del mondo, piango a un muro d'aria.
Il paradiso dipende da noi, anche dopo la cacciata.
La materia del muro - oro bianco che si dissolverà con la luce...
Ho dentro di me il sacro ricordo del nero. Gli altri colori non sono che deboli sfumature, per cui provo un debole affetto.
Mille anni fa - meno di una sillaba - e Pompei si è nascosta per sempre.
Di trave in trave, precipitando, ma con atterrita geometria.
La nostra scommessa: che il mondo sia una piuma in una casa deserta.
Terrori - ossatura del mondo. L'universo si regge sopra un fremito d'erba.
Fare l'abitudine al buio. Qualcosa, dopo mezzanotte, cambia l'occhio - che diventa più umile, più piccolo.
Nascònditi dietro la porta di bronzo che comincia a bruciare - lo vedi, il metallo si fonde fra le fiamme, torna bianchissimo...
Cosa faresti di me se arrivassi da te vestita d'aria?
Che pomeriggio, in cielo, il giorno in cui fu ammessa Emily Brontë...
Tornata da chissà dove, a dire segreti di cui non so nulla, a parlarvi di porte sigillate, non spalancate. Nessun occhio ha mai visto oltre. Nessun orecchio, udito.
Quando dopo un dolore squassante il volto resta impassibile, quella quiete è vulcanica.
Molta pazzia - divino buon senso. Molto buon senso - stoltezza e pazzia.
Sono viva perché non possiedo una casa mia. Perché non abito un luogo dove si pronuncia il mio nome.
Io? Nessuno. E tu?
Nella mia stanza, talvolta, un amico che prende forma. Poi, solo fumo.
Quando io parlo, quando scrivo sul foglio la voce che nessuno ascolta, le ombre trattengono il fiato.
Via di qui. Sparire. Ma che non faccia troppo male, che sia come togliersi il velo.
Paralizzato dall'oro dell'ultimo cielo, Tiziano ne dipinse appena un lembo...
Conosco molte vite di cui farei a meno senza dolore; altre che, ne mancasse un solo istante, morrei ammutolita.
Nebbia su nebbia. Dal crimine di dissiparla la poesia mi proteggerà sempre.
Voce, giù dal corridoio. Ultima voce dal mondo. Alta, stridula, volgare - degna della terra.
Devo scrivere poesie senza voce. Devo pregare a foglio chiuso.
Vorrei essere più bianca - ma sarà possibile? - delle mie ossa.
Sotto lieve pietra, fra compagni invisibili, per un breve soggiorno. Poi, tolta la pietra, il passo nell'onda...
Anche se nell'ultimo giorno Cristo ci negasse, c'è uno spirito più fosco di lui che non sconfesserà la propria figlia nell'attimo risolutivo.
La frase l'hai messa al sicuro: è qui, come un ritratto, dietro la porta socchiusa. Ora puoi morire, se vuoi, perché non morrai più.
Dolci cugine.
Richiamata: Emily.