13/03/11

Nino Arrigo, MAJORANA E IL GIOVANE HOLDEN

La misteriosa scomparsa dello scienziato catanese Ettore Majorana, sembra offrire lo spunto per un dialogo intertestuale tra mito, letteratura e scienza. Alla maniera dell’Holden di Salinger, metafora dell’artista, la scomparsa di Majorana sembra evocare la temporalità paradossale del mito e degli archetipi.

Ma vediamo come il “giovane Holden” di Salinger, sembra coniugare le caratteristiche del fanciullo orfano con quelle dell’erranza:

Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio do parlarne. Primo, quella roba mi secca, e secondo, ai miei genitori gli verrebbero un paio d’infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto. Sono tremendamente suscettibili su queste cose, soprattutto mio padre è[1].

Alla maniera di Huckleberry Finn, Holden parla “una lingua lontana dal linguaggio letterario degli adulti” [2], e alla maniera di Huck, “nauseato” dal mondo degli adulti, compie una fuga che si configura come un’attacco al potere dei padri. Il riferimento - seppure dal carattere ironico e antifrastico - a David Copperfield ci rivelerebbe, fin dal suo incipit, la sua condizione di “fanciullo orfano”.

Ma la fuga di Holden dall’istituzione familiare, il suo attacco alla “buracrazia” degli adulti, troverà rifugio nella psicanalisi, espressione – secondo Deleuze – [3] del più perverso potere burocratico. La sua “rivolta impotente”mè[4] si spegnerà “in un collasso nervoso” [5] tra le braccia di uno psicanalista. Malato a causa della famiglia, Holden sarà costretto a guarire grazie alla famiglia [6]. L’itinerario, paradossale, della sua fuga si concluderà a casa; più che una fuga da casa, quella di Holden sarà, dunque, una fuga verso casa. E’ nel dialogo col Prof. Antolini, nel finale del libro, che il destino di Holden si rivelerà quello di Assuero, di Edipo, di Ulisse. Il destino dell’artista alle prese col raggiungimento della tanto agognata maturità:

E mi dispiace dirtelo, continuò, - ma credo che non appena comincerai a vedere chiaramente dove vuoi andare, il tuo impulso sarà di applicarti allo studio. Per forza. Sei uno studioso, che ti piaccia o no. Smanii di sapere (...) Non appena ti sarai lasciato dietro tutti i professori Vinson, allora comincerai ad andare sempre più vicino, se sai volerlo e se sai cercarlo e aspettarlo, a quel genere di conoscenza che sarà cara, molto cara al tuo cuore. Tra l’altro scoprirai di non essere il primo che il comportamento degli uomini abbia sconcertato, impaurito e persino nauseato (...) Molti, moltissimi uomini si sono sentiti moralmente e spiritualmente turbati come te adesso. Per fortuna, alcuni hanno messo nero su bianco quei loro turbamenti. Imparerai da loro se vuoi. Proprio come un giorno, se tu avrai qualcosa da dare, altri impareranno da te [7].

Soltanto la scrittura, dunque, potrebbe dare un senso ai turbamenti di Holden, al suo errare che è l’eterno “errare dei più tormentati tra gli uomini, di coloro i quali non sanno e non possono fermarsi” [8], e che non possono che “affidare alla scrittura i propri turbamenti, le ragioni profonde del proprio vagabondaggio spirituale e metafisico” [9]. Ma la scrittura cui fa riferimento Antolini, indossando la maschera della funzione paterna, è quella scrittura come terapia, strumento privilegiato dalla psicanalisi per riportare l’errante ribelle nei binari della famiglia, per sanare la sua malattia e reintegrarlo nella società e nella storia.

Ma Holden, come il Bartleby melvilliano non è il malato “bensì il medico di un’America malata, il Medicine man, il nuovo Cristo o il fratello di noi tutti” [10]. Piuttosto che la clinica psichiatrica, dove finirà l’odissea di Holden, per imparare la maturità e costruire la società dei padri, lo “scrivano” di Melville preferirà morire in prigione di “disobbedienza civile”, continuando a dire “no”. Preferendo, all’“umiltà” dell’uomo maturo, la “nobiltà” dell’immaturo.

Il 25 marzo del 1938, Ettore Majorana – lo scienziato catanese, tra i pionieri di quella svolta verso l’indeterminazione che sarebbe stata impressa alla fisica classica, a partire da Heisenberg – rende manifesta, al direttore dell’Istituto di fisica della Regia Università di Napoli, la sua volontà di abbandonare la docenza:

Caro Carrelli,

Ho preso una decisione che era ormai inevitabile. Non vi è in essa un solo granello di egoismo, ma mi rendo conto delle noie che la mia improvvisa scomparsa potrà procurare a te e agli studenti. Anche per questo ti prego di perdonarmi, ma sopra tutto per avere deluso tutta la fiducia, la sincera amicizia e la simpatia che mi hai dimostrato in questi mesi. Ti prego anche di ricordarmi a coloro che ho imparato a conoscere e ad apprezzare nel tuo Istituto, particolarmente a Sciuti, dei quali tutti conserverò un caro ricordo almeno fino alle undici di questa sera, e possibilmente anche dopo [11].

Ma a distanza di un giorno, stavolta da Palermo, Majorana riscriverà allo stesso Carrelli:

Caro Carrelli,

Spero ti siano arrivati insieme il telegramma e la lettera. Il mare mi ha rifiutato e ritornerò domani all’albergo Bologna [di Napoli], viaggiando forse con questo foglio. Ho però intenzione di rinunciare all’insegnamento. Non mi prendere per una ragazza ibseniana perché il caso è differente. Sono a tua disposizione per ulteriori dettagli [12].

Sarà questo l’ultimo atto della vita del giovane e brillante scienziato.

Alla maniera del profeta biblico Giona, Majorana, fuggendo dalla “maturità” dei padri, si rifugia in una nave, dove in mare aperto tenterà il suicidio. Anche il riferimento letterario a Ibsen [13], per nulla casuale, potrebbe rappresentare, attraverso la strategia della preterizione, una ulteriore conferma della sua “regressione” nell’oceano istintivo della vita prenatale, del suo rifiuto della società dei “padri”. Sulla scomparsa di Majorana sembrerebbe allungarsi, dunque, l’ombra dell’Holden salingeriano. L’ombra di Ulisse, di Edipo, dell’Ebreo Errante Assuero. In essa, i confini tra il reale e l’immaginario, rimarrebbero evanescenti, indeterminati come l’esistenza delle particelle scoperte dallo stesso scienziato. Il mistero della scomparsa andrebbe pertanto ricercato nella realtà paradossale ed eterna del mito e degli archetipi, piuttosto che in quella lineare e razionale della storia.

La portata mitica dell’avvenimento non sfuggì all’intelligenza di Leonardo Sciascia:

preparando dunque la propria scomparsa, organizzandola, calcolandola, crediamo baluginasse in Majorana – in contraddizione, in controparte, in contrappunto – la coscienza che i dati della sua breve vita, messi in relazione al mistero della sua scomparsa, potessero costituirsi in mito. La scelta - di apparenza o reale – della “morte per acqua”, è indicativa e ripetitiva di un mito: quello dell’Ulisse dantesco. E il non far ritrovare il corpo o il far credere che fosse in mare sparito, era un ribadire l’indicazione mitica. Già la scomparsa di per sé, e in ogni caso, un che di mitico. Il corpo che non si trova e la cui morte, non potendo essere celebrata, non è “vera” morte; o la diversa identità e vita – non “vera” identità, non “vera” vita – che lo scomparso altrove conduce, entrando nella sfera dell’invisibilità, che è essenza del mito (...) nel cui mitico scomparire venivano ad assumere mitici significati la giovinezza, la mente prodigiosa, la scienza (...) E crediamo che Majorana (...) nella sua scomparsa prefigurasse, avesse coscienza di prefigurare, in mito: il mito del rifiuto della scienza [14].

Scomparendo, dunque, Majorana si sarebbe sottratto persino all’inesorabile destino della morte, ineluttabile necessità cui sarebbero in grado di sfuggire soltanto i miti e le particelle quantistiche. Lo scienziato catanese, dunque, sarebbe vivo e morto contemporaneamente, alla maniera del Vecchio Marinaio di Coleridge e del gatto di Schrödinger. Uno, nessuno e centomila come il Vitangelo Moscarda pirandelliano. Ma non siamo d’accordo con Sciascia, quando afferma che il mito di Majorana sarebbe il mito del rifiuto della scienza. Il rifiuto della scienza da parte di Majorana, sembrerebbe piuttosto il rifiuto del determinismo della scienza classica.

Secondo un’ipotesi recente di Oleg Zaslavski, la pluralità delle versioni sul mistero della scomparsa di Majorana sarebbe il risultato di un piano, dallo stesso congegnato, per incarnare con il suo destino i principi della meccanica quantistica, quali per esempio quello della sovrapposizione simultanea di una particella in due stati quantistici che si escludono a vicenda. Secondo questo recente studio, Majorana sarebbe stato insoddisfatto delle leggi stesse dell’esistenza, che non prevedono alternative. Da qui il tentativo di creare un destino che fosse, nella percezione degli altri, l’incarnazione dell’ambiguità e dell’ambivalenza, proprio in conformità con la nuova idea del mondo scaturita dalle acquisizioni della fisica quantistica. Tutto questo avrebbe uno straordinario analogo nel destino dell’artista (e dello scrittore) che, in quanto costruttore di simboli, personaggi ed esistenze possibili, è l’araldo dell’ambivalenza, della contraddizione e del paradosso.

Con il suo straordinario intuito, Majorana avrebbe dunque percepito la distanza del rigido determinismo delle leggi classiche della fisica, dalla dimensione della vita.

A portare a compimento le sue straordinarie intuizioni sarà un altro errante, esiliato, “marrano”: Edgar Morin.

Ecco come il filosofo del “Metodo” sintetizza la sua natura di errante, in una delle più avvincenti autobiografie intellettuali che siano mai state scritte:

Non ho smesso di essere in cammino. La mia vita è stata e continua a essere in movimento, errante, ricca di meandri, agitata da ogni parte dalle mie aspirazioni molteplici e antagoniste. Ho sempre obbedito ai miei demoni, ma gli eventi e il caso hanno creato delle discontinuità, trasportandomi là dove non sapevo di dover andare, ma dove ritrovavo, comunque, i miei demoni. Ho continuato a muovermi da un ambiente all’altro, ad aggirarmi nella società e anzi nelle società, rifiutandomi di restar chiuso in una casta (soprattutto in quella intellettuale). Sono rimasto fedele alla “concezione sintetica” della vita. Ho sempre creduto che alle mie “traversate del deserto” si sarebbero alternate delle oasi, e in effetti le oasi dello spirito e del cuore hanno scandito quelle traversate. Ho subito l’alternarsi traversata/oasi come un destino impostomi dall’esterno, dalle condizioni storiche. Si trattava invece di stati interiori personali: i due demoni contrari che hanno abitato il mio animo, quello della dispersione e del ritorno in me stesso. Mi sono più volte perso, fino a sentirmi smembrato; ma dopo, ritrovatomi, ho rimesso assieme e utilizzato proprio gli elementi che avevo dissipati nei periodi di dispersione. Non ho fatto altro che ricominciare ogni volta da capo (...) Sono stati proprio questi cicli di deserti e oasi, dispersione e concentrazione, a creare la mia via. Questa è la via, non quella che io stesso mi ero tracciato, ma quella tracciata dal mio andare: Caminante no hay camino, camino se hace al andar [15].

La rinnovata attenzione di Morin per il soggetto, a dispetto di qualsiasi sociologia determinista, e di qualsiasi primato dell’ambiente sociale sull’individuo, è la conseguenza di quel mutamento di paradigma nella scienza che, dal riduzionismo, muove verso la “complessità” [16]. Morin preferisce attribuire i propri cambiamenti esistenziali a stati interiori, all’influenza dei propri demoni, piuttosto che all’influenza dell’ambiente e della storia. Quella dischiusa dal filosofo francese sembra essere una nuova prospettiva storica, aperta al divenire e all’evento. Una storia ciclica, fatta di discontinuità, di traversate del deserto e di oasi, che abbandona l’idea deterministica e “metafisica” della linea dritta verso un telos e si consegna alla temporalità paradossale del mito dell’eterno ritorno di Nietzsche.

Entrambi, dunque, l’artista e lo scienziato, sarebbero gli araldi del “nomadismo”. Entrambi, guardando dentro di sé “alla ricerca di una certezza prima” [17], non troverebbero “la sicurezza del cogito cartesiano, ma le intermittenze del cuore proustiane” [18]. Le contraddizioni dei propri demoni.

NOTE

[1] J. D. Salinger, THE CATCHER IN THE RYE (1951), IL GIOVANE HOLDEN, Torino, Einaudi, 2004, p. 3.

[2] L. Fiedler, AMORE E MORTE NEL ROMANZO AMERICANO (1960), Milano, Longanesi, 1963, p. 295.

[3] Cfr. G. Deleuze, PENSIERO NOMADE, in NIETZSCHE E LA FILOSOFIA (1962), Torino, Einaudi, 2002, pp. 309-22.

[4] L. Fiedler, cit., p. 296.

[5] Ibidem.

[6] Cfr. G. Deleuze, PENSIERO NOMADE, cit.

[7] J. D. Salinger, cit., pp. 215-16.

[8] M. C. Fumagalli, HUCKLEBERRY FINN, HOLDEN CAULFIELD, DEAN MORIARTY E L’EBREO ERRANTE, in E. Finz Menascè, a cura di, L’EBREO ERRANTE: METAMORFOSI DI UN MITO, cit., p. 312.

[9] Ibidem.

[10] G. Deleuze, BARTLEBY O LA FORMULA, in G. Deleuze-G. Agamben, BARTLEBY. LA FORMULA DELLA CREAZIONE (1989), Macerata, Quodlibet, 1993, p. 45.

[11] MC/N – Lettera a Carrelli da Napoli (25.3.38), in E. Recami, IL CASO MAJORANA. EPISTOLARIO, DOCUMENTI, TESTIMONIANZE, Roma, Di Renzo, 2002, p. 204.

[12] MC/P – Lettera a Carrelli da Palermo (26-3-38), in E. Recami, cit., p. 205.

[13] Nel dramma ibseniano CASA DI BAMBOLA – cui Majorana con molta probabilità allude - Nora, moglie-bambina, spensierata e spratica della vita, una volta scoperto di essere un giocattolo o un bell'oggetto utile soltanto a soddisfare l'egoismo maschile, lascia il marito e i figli, forse per ritrovare se stessa come individuo attraverso le difficoltà comuni, sempre preferibili alla “prigione dorata”. Il dramma ibseniano diverrà in seguito un manifesto dell’impegno femminista. Cfr. H. Ibsen, I DRAMMI, Torino, Einaudi, 1982.

[14] L. Sciascia, LA SCOMPARSA DI MAJORANA, in OPERE 1971-1983, Milano, Bompiani, 2001, pp. 261-62.

[15] E. Morin, I MIEI DEMONI (1994), Roma, Meltemi, 1999, pp. 211-12.

[16] Per una panoramica del mutamento di pensiero che dal riduzionismo porta alla complessità cfr. G. Giordano, DA EINSTEIN A MORIN. FILOSOFIA E SCIENZA TRA DUE PARADIGMI, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006; si veda inoltre il fondamentale volume di G. Gembillo, LE POLILOGICHE DELLA COMPLESSITÀ. METAMORFOSI DELLA RAGIONE DA ARISTOTELE A MORIN, Firenze, Le Lettere, 2008.

[17] G. Vattimo, IL MITO RITROVATO, in LA SOCIETÀ TRASPARENTE (1989), Milano, Garzanti, 2000, p. 61.

[18] Ibidem, pp. 61-62.