19/11/10

S.N. Dasgupta, IL MISTICISMO INDIANO


[Buddha defeats Mara. (From the windows of Brussels). Foto di Marzia Poerio]


S.N. Dasgupta, IL MISTICISMO INDIANO. Titolo originale: HINDU MYSTICISM, 1926. Traduzione di Bruno Romano. Roma, Edizioni Mediterranee, 1995

Dasgupta ha il merito di scrivere con chiarezza e di rivolgersi a un pubblico di formazione anche occidentale, per cui i suoi libri sono sempre accessibili oltre che qualificati, da docente universitario quale egli fu a Cambridge, Calcutta e in altre sedi.

Da un lato, in questo volume, vengono messi in rilievo i temi del misticismo in generale: l'aspirazione al sacro prima ancora che al divino, la trascendenza, la familiarità con la contemplazione di Dio, il ritiro nel sé spirituale interno all'individuo (l’Atman, l’anima) e il principio universale (il Brahman) riscontrato al contempo nel cosmo.

Dall'altro lato, e più in dettaglio, essendo questo il tema specifico del libro, viene fornito un quadro particolareggiato e allo stesso tempo riassuntivo di varie scuole mistiche indiane, tra le quali si distinguono con più evidenza di altre l'Induismo delle origini con la dinamica del sacrificio; l'Induismo successivo e la trasformazione degli dei originari in quelli classici; le UPANISHAD; il Jainismo; il Buddhismo.

Tra i brani che per me sono stati più significativi, ricordo qui la teoria della trasformazione del sacrificio in simbolo. Scrive Dasgupta che "il potere trascendente, misterioso e segreto del sacrificio rimpiazza le forze della natura personificate dagli dei" (p. 40). Se qui si pone una "mediazione sostitutiva", per cui ad esempio la testa del cavallo sacrificale può essere equiparata all'alba, il cielo alla carne, le stelle alle ossa, tale mediazione si accresce in astrazione col passare del tempo fino a che si arriva alla meditazione sostitutiva sulle "lettere dell'alfabeto, come se rappresentassero il Brahman o qualche altra divinità" (p. 40).

Infine, con le UPANISHAD(i VEDANTA o parte conclusiva dei VEDA), l'astrazione si amplia ulteriormente; ed ecco la meditazione mistica sulle parole "magiche" e che racchiudono in sé le leggi dell'universo, parole come la sillaba Om o i termini Bhuh, Bhuvah, Svah del mantra Gayatri, ognuno dei quali equivale a significati multipli e cosmici: Bhu, terra, materia spessa, mattino, passato; Bhuvah, atmosfera, materia sottile, mezzodì, presente, azione incisiva; Svah, etere, futuro, sera, spiritualità.

Le UPANISHAD, o, come ne definisce uno degli aspetti Dasgupta, la "scienza del Brahman", a differenza del misticismo più arcaico e sacrificale:

"[...] non comporta alcuna ricerca dei vantaggi ordinari della vita. Essa scaturisce da una necessità spirituale della nostra anima, la quale può essere soddisfatta solamente col raggiungimento dello scopo più alto. Tutto ciò che è mortale, tutto ciò che è transitorio ed evanescente, conferisce all'uomo le gioie ordinarie della vita, come la ricchezza e la fama, le quali non sono altro che piaceri e soddisfazioni rudimentali in grado di procurare gioia solo fino a quando l'uomo permette a se stesso di essere sviato dalle richieste dei propri sensi" (p. 53).

La privazione è dunque la ricerca dell'autenticità interiore e per il mistico del contatto con la divinità, con la dinamica di Atman e Brahman delle UPANISHAD. Una dinamica che lo yoga porta avanti con l'"elevazione della vita morale, compreso il controllo assoluto di tutte le passioni e di tutti i desideri, l'abbandono delle ambizioni e delle speranze mondane, il raggiungimento di uno stato imperturbabile di pace della mente" (p. 73). Il fine dello yoga, tramite la tecnica di "fermare completamente e assolutamente sia il flusso mentale che quello inconscio" (p. 81), è "dissociarci dalle nostre sensazioni, pensieri, idee, emozioni" e apprendere che esse sono "solo associazioni estranee, sconosciute alla natura del sé, ma che aderiscono a questo, diventandone quasi sempre così inseparabili da impedirci la scoperta del vero sé come un'entità separata e indipendente" (p. 77). Gli yogi che conseguirono questo risultato nell'antichità non erano animati da pessimismo, al contrario: se queste persone non provavano attaccamento per il mondo non era perché il mondo fosse privo di gioie e di piaceri da offrire, ma piuttosto perché il loro desiderio di ottenere il bene più grande, il loro vero sé, era talmente forte da non tollerare alcun compromesso con nessun altro desiderio" (p. 79).

Proseguendo cronologicamente in avanti per questa strada, emerge con chiarezza in Dasgupta come il Buddhismo rappresenti una specie di protestantismo dell'Induismo e una variante dello yoga di Patanjali, con cui coincide per principi etici e finalità di liberazione, compresi i concetti di amicizia universale e di altruismo. Tra queste due scuole, secondo Dasgupta, c'è un unico punto di differenziazione: "per il Buddha, il fine ultimo di tutta la concentrazione e della sua più alta perfezione è l'estinzione assoluta, mentre per Patanjali è la liberazione dello spirito per mezzo dell'autoilluminazione" (p. 96).

Mondi e percorsi di conoscenza interiore e panica profondi e irti di difficoltà. A volte mi domando quanto siano a essi corrispondenti le varianti contemporanee e occidentalizzate di queste scuole di pensiero; ma è un fatto che la tarda modernità, nella sua ibridazione costante di elementi, ha bisogno di adattamenti. La questione è quale sia il confine tra il mutamento geo-filosofico-esistenziale dell'importazione dello spiritualismo orientale in Occidente, e il travisamento, la secolarizzazione, l'uso per scopi diversi da quelli della ricerca interiore?

[Aurelio Devanagari]