13/06/10

Peter Harvey, INTRODUCTION TO BUDDHISM: TEACHING, HISTORY AND PRACTICES

Ben definiti da Peter Harvey i principi del buddhismo in questa INTRODUCTION TO BUDDHISM (Cambridge University Press, 1990) che ho ripreso in mano spolverando gli scaffali della biblioteca.

Il volume contiene una spiegazione esauriente dei testi del buddhismo antico (Theravada), e che restano tra i miei preferiti per la linearità e il carattere psicologico (a parte, nel Mahayana, la compassione e l'azione dei bodhisattva e il vuoto su cui tutto si fonda; meno invece la costruzione di mondi complicati ed esseri divinizzati).

Le quattro nobili verità:

1. l’esistenza del dolore (dukkha), consistente in tutto ciò che si collega alla sofferenza, alla mancanza, all’ansia, alla malattia, all’invecchiamento, alla morte;

2. la causa e origine del dolore, cioè la “sete”, il desiderio, l’affermazione di sé, l’intolleranza e le opinioni troppo marcate;

3. la coscienza che si può uscire dal dolore e pervenire al nirvana;

4. la via per uscire dal dolore, consistente nell’ottuplice sentiero: retto pensiero, retta parola, retta azione, retta comprensione, retta attenzione, retta meditazione, retto sforzo, retto sostentamento.

Il retto pensiero riguarda le emozioni ed è diretto verso una pacificata liberazione dalla sensualità, dalle cattive disposizioni e dalla crudeltà, e verso la buona disposizione e la compassione.

La retta parola è non parlare con asprezza e invano e non mentire.
La retta azione è non uccidere e non esercitare violenza, astenersi da una condotta sessuale scorretta, non bere alcol, non rubare.

Uno degli stati della personalità è quello delle attività costruttive; e c’è, tra le altre, una concezione etica basata su atti utili e inutili, desiderabili e indesiderabili, più che soltanto buoni o cattivi. Così è meglio operare bene perché ciò dà più soddisfazione ed è in consonanza con l’armonia dell’universo.

La coscienza dell’impermanenza di ogni cosa e stato dell’essere dovrebbe condurre alla saggezza e sul cammino giusto. Non esiste un’identità fissa: il non sé significa che, sebbene esista un’identità empirica, un carattere della persona, per cui ci si riferisce a se stessi come io, non è rinvenibile un sé permanente, indipendente e metafisico (anche perché per i buddhisti c’è trasmigrazione da una vita a un’altra in cui ci si reincarna per effetto del samsara). La teoria del non-sé serve a superare l’attaccamento, in quanto se non si identificano i fenomeni come legati al sé li si guarda e vive con distacco. È attraverso il distacco che si giunge al nirvana.

La teoria della nascita condizionata è che tutto, sia esso fisico o mentale, esiste a causa di certe condizioni e cessa col cessare di tali condizioni. Operando sulle condizioni che determinano la sofferenza, la si può controllare e superare. La coscienza è dunque fondamentale.

Oltre che di un libro esplicativo di livello universitario, quello di Harvey è anche un repertorio ben organizzato delle scuole buddhiste e della loro diffusione soprattutto asiatica.


[Aurelio Devanagari]