15/05/10

Tenzin Gyatso (The Dalai Lama), ANCIENT WISDOM, MODERN WORLD: ETHICS FOR THE NEW MILLENNIUM


[Buddha statue. (Island of Lantau - Hong Kong). Foto di Marzia Poerio].

Prima edizione in lingua inglese: 1999. Ristampa: Londra, Abacus, 2002

Leggo sempre volentieri i libri del Dalai Lama, che hanno, tra gli altri, il pregio di rivolgersi a un pubblico anche non specialistico e anche non religioso.

Riprendendo in mano questo saggio sulla saggezza e l’etica, mi ha colpito notare come, secondo Gyatso, una vita etica non presupponga necessariamente convinzioni religiose. In effetti i suoi principi buddhisti si attagliano a qualunque persona; in ogni caso rispecchiano una certa tendenza personale. Un concetto, espresso in prima persona, ovvero sulla base dell’esperienza che conferma una legge più ampia, è: “I have come to the conclusion that whether or not a person is religious does not matter much. Far more important is that they be a good human being” (p. 20).

Se si vede l’universo come un organismo vivente, il benessere personale risulterà collegato a quello di tutti gli altri organismi e di tutte le cellule; il Dalai Lama auspica che da qui nasca un’etica della responsabilità nei confronti dell’ambiente e degli altri esseri.

La relatività del sé del buddhsimo la spiega così: “We find that, if we look for the identity of the self analytically, its apparent solidity dissolves [...]: its identity as a construct becomes evident. We come to see that the distinction we make between ‘self’ and ‘others’ is to some extent an exaggeration. [...] The word ‘self’ does not denote an independent object. Rather it is a label we apply to a complex web of interrelated phenomena” (pp. 42-43).

La felicità che sembra di provare nel soddisfare gli impulsi è simile in realtà a quella del drogato. “We find that a great deal of what I have called internal suffering can be attributed to our impulsive approach to happiness” (p. 53). Le condizioni per la felicità vera consistono invece, per il Dalai Lama, nel tener conto degli altri quando si concede soddisfazione ai nostri desideri; e il senso di pace interiore (pp. 54-55). L’etica è collegata in quanto “an ethical act is one where we refrain from causing harm to others’ experience or expectation of happiness”; definisce invece “spiritual acts” certe qualità “of love, compassion, patience, forgiveness, humility, tolerance and so on which presume some level of tolerance for others’ well-being. We find that the (spiritual) actions we undertake which are motivated not by narrow self-interest but out of our concern for others actually benefit ourselves” (pp. 62-63); e “in our concern for others we worry less about ourselves. When we worry less about ourselves, the experience of our own suffering is less intense” (p. 64).

C’è un’etica del frenarsi (“restraint”) che non va autoimposta astrattamente, bensì basata su una scelta cosciente, sulla comprensione della natura distruttiva delle passioni sfrenate e sul desiderio di limitarle per stare meglio: c’è cioè differenza tra “denial” e “restraint”, non si tratta di seguire delle regole astratte, ma di capire e adottare il “restraint” per i benefici che esso provoca (p. 102). Si tratta delle “afflictive emotions” (come ira, odio, avidità, orgoglio, egoismo) che non rientrano entro la categoria dell’“unavoidable suffering (which includes sickness, old age and death)” (p. 90). Del resto, quando cediamo alle “afflictive emotions”, proviamo un senso di disagio e di malessere (pp. 91-92). Si tratta di capire cosa non va bene e cosa è meglio non fare, di evitare le situazioni e attività che normalmente provocano pensieri e emozioni negative (p. 94) e anche di evitare le persone che provocano reazioni di tale tipo almeno fino a quando non si è abbastanza forti interiormente da frequentarle senza esserne negativamente influenzati. Le emozioni negative, comunque, non vanno nascoste e negate, ma espresse in modi appropriati, ad esempio affrontando le persone o le situazioni che le hanno provocate se ciò può risolvere, nel caso cioè in cui covare il rancore non farebbe altro che male a noi (alla pace interiore) e agli altri (farebbe nascere l’odio) (p. 103).


[Aurelio Devanagari]