19/02/10

Santiago Montobbio, LE THÉOLOGIEN DISSIDENT

Santiago Montobbio, LE THÉOLOGIEN DISSIDENT, Paris, Éditions Atelier La Feugraie, 2008. (Traduzione francese dallo spagnolo di J.-L. Breton)


Quest’antologia in francese del poeta catalano Santiago Montobbio (nato a Barcellona nel 1966 e ivi residente) contiene molte poesie tratte dalle sue cinque sillogi: HOSPITAL DE INOCENTES (1989), ÉTICA CONFIRMADA (1990), TIERRAS (1996), LOS VERSOS DEL FANTASMA (2003), EL ANARQUISTA DE LAS BENGALAS (2005); contiene inoltre sei poesie inedite e tre prose poetiche.

Ad una attenta lettura di queste liriche originalissime ed autentiche, senza reminiscenze letterarie, ci si rende conto che il discorso poetico di Santiago Montobbio, sostenuto da una semantica di versi piuttosto lunghi, musicali e liberi da ogni laccio della prosodia tradizionale, è ricco di immagini, simboli, metafore ed analogie. Al ritmo musicale dei versi non va disgiunta una certa tendenza esistenziale che induce ad esaminare la propria conscienza e l’inutilità degli sforzi umani per sopravvivere in un mondo assurdo e alogico.

Montobbio è il poeta del dissenso, il teologo che razionalizza il nostro destino in seno ad una società ipocrita e mediocre, dedita al consumismo, ma priva di ideali patriottici, spirituali ed escatologici. Da qui il titolo della raccolta: IL TEOLOGO DISSIDENTE. Per il poeta catalano, scrivere è una forma di suicidio, ma è anche una maniera catartica per superare in qualche modo le condizioni assurde, precarie, provvisorie e contingenti dell'esistenza.

Il cinismo ideologico sfocia nell’umorismo e nell’ironia che prevalgono, nella sua poetica, sulle emozioni esotiche e sensuali, persino sui tristi fantasmi dell’adolescenza. I meandri oscuri e assurdi della memoria alogica indicano che “l’intelligenza non è altro che una reliquia”, un mondo sepolto nelle forre dell’anima meditabonda e vagabonda. Nel mito dell’infanzia, decantato da altri poeti, Montobbio cerca di dimenticare l'innocenza infantile e la tenerezza giovanile sul monte della pietà e, meditando come un’asceta eremita sulla compassione emotiva dell'esistenza, la propria e su quella degli altri, continua a vivere fra difetti in un compromesso ideologico che egli stesso ritiene non accettabile.

In questa forma mentis il poeta si rifugia in un regno onirico ed utopico, nella terra arcana e misteriosa dei sogni dove l’uomo si può amare e detestare allo stesso tempo nella visione di città e paessaggi che non sfuggono alla fantasia e alla preziosa immaginazione: “Non sono mai andato a Praga, ma sogno i suoi giardini, / le sue vetrine piene di misteri tremanti”. Tra sogno e realtà, il poeta ha seguito due carriere: quella della letteratura in generale e quella più specifica della poesia. Nella Barcellona polverosa degli anni Cinquanta, rinviene i furori che precedettero la sua nascita e recupera “il rito tacito che si è imposto”, quello della divina poesia che comprende una liturgia senza altari e senza statue.

In quest’ottica, la terra per lui diventa un vero esilio nel quale si cercano sempre lidi nuovi a cui approdare, ma si finisce per incorrere nel naufragio jaspersiano in cui si sente solo il lamento favoloso della chitarra lorchiana nel mito di Orfeo. In tale abbandono, il poeta perde o disconosce la propria fisonomía (“Je n’ai pas de visage”) e cerca spesso di definire ontologicamente se stesso: sono un fanciullo che qualcuno ha perduto; sono un fanciullo che canta ma non esiste. Nella negazione della propria esistenza, sta al poeta lasciare una poesia incompleta nelle “dita dell’aria” per affrontare una fuga ostinata verso il mistero dell’ignoto.

Nonostante tutto, alla fine si abbandona a se stesso e finisce con l’abituarsi all’avarizia smisurata che caratterizza l’orchestra cieca del nulla e del vuoto, con un colore giallastro: "la letteratura è adolescenza; ho paura di scrivere, questo mestiere di bastardo; ho paura di scrivere e fuggo i suoni che mi assalgono". Ed ecco una dichiarazione pessimista, anarchica, dissidente, rinunciataria: “Io non voglio vedere quelle strade e quei tramonti morti. / (…) Non voglio niente, / non c’è nulla da sapere, nulla da scoprire, / e nel precipizio dei colpi secchi / non scopro niente, mi ci sprofondo e taccio”.

Nel testo di certi versi di Montobbio è facile riscontrare il pessimismo cosmico di Leopardi (“la noia che proviene da noi stessi / mi obbliga a navigare contro il silenzio”), ma è il silenzio dei defunti foscoliani ad essere più eloquente di ogni altra sinfonia. I concetti esistenziali della noia di vivere e dell’inutilità delle illusioni vengono proiettati ed estesi nell’ambito dell’assurdità alogica delle azioni umane in una società refrattaria e retriva a un’analisi razionale del destino, precario e arcano allo stesso tempo, per cui anche l’egoismo del poeta si rivela una menzogna.

La poesia di Santiago Montobbio a volte fa venire i brividi al lettore attento, ma più spesso spinge alla meditazione sulla diaspora escatologica della vita e sul suo significato intrinseco alla luce dell’epistemologia del destino umano, che non si può spiegare né nelle sue connotazioni teologiche, nè con l’aiuto della filosofia.


[Orazio Tanelli]


NOTA

Articolo inviato dall’autore e precedentemente pubblicato su “Il Ponte Italo-Americano”, XX.1, 2009.