07/02/08

Nino Arrigo, DESTINO ED ETERNO RITORNO NELL’OPERA DI HERMAN MELVILLE E CESARE PAVESE


[The Whale? (Private collection). Foto di Marzia Poerio]


Il tema del destino, centrale nell’attività narrativa e poetica di Pavese, ma anche in quella teorico saggistica, dove è sinonimo di mito, ha un ruolo non secondario nella produzione di Herman Melville.

Ecco un brano di Moby Dick di cui sono protagonisti Ismaele e Quiqueg intenti ad intrecciare una stuoia, che ben sintetizza questa tematica:

“Ecco i fili immobili dell’ordito, soggetti solo a un’unica, sempre uguale, immutabile vibrazione [...] Quest’ordito pareva la Necessità; ed ecco, pensavo, io con le mie mani manovro la mia spola e intreccio il mio destino [...] la sciabola istintiva e indifferente di Quiqueg [...] deve essere il Caso: sì, il caso, il libero arbitrio e la necessità, in nessun modo incompatibili, che tutti intrecciandosi, lavorano insieme.

La trama diritta della necessità, [...] il libero arbitrio, che è ancor libero di manovrare la sua spola tra i fili fissati; e il caso, che sebbene costretto nell’azione tra le linee diritte della necessità e guidato obliquamente nei suoi movimenti dal libero arbitrio, sebbene così comandato dai due a turno li comanda e dà l’ultimo colpo formatore agli eventi” [1].

La paradossale compresenza di necessità (mitica) e accidentalità (storica), sembra trovare quasi una sistemazione teorica in questo brano, dove Melville sembra intuire il rapporto di complementarità che sussiste tra necessità e casualità, mito e storia [2].

Ma sono numerosi i momenti in cui la narrazione melvilliana ripiega in simili digressioni dal carattere riflessivo-meditativo. Eccone un’altra delle tante:

“Come la calma profonda [...] è forse più spaventosa della tempesta stessa, poiché di fatto essa è soltanto l’involucro, la busta della tempesta, e la contiene dentro di sé [...] così l’aggraziato riposo della lenza, dov’essa silenziosamente s’abbiscia in mezzo ai rematori prima che venga messa in azione, quest’immobilità incute più reale terrore di qualunque altra parvenza nella pericolosa faccenda [...] Tutti gli uomini vivono ravvolti in lenze da balena. Tutti sono nati con capestri intorno al collo; ma è solamente quando vengono presi nel rapido, fulminio giro della morte, che i mortali diventano consci dei muti, sottili, onnipresenti pericoli della vita. E se voi foste un filosofo, sebbene seduto in una lancia baleniera non sentireste in cuore un briciolo di terrore più che seduto davanti al vostro fuoco serale con un attizzatoio, e non un rampone, accanto” [3].

Potremmo usare la metafora di Melville e affermare che la necessità sia la “busta, il contenitore” dell’accidentalità e della libertà. È il destino dunque che, paradossalmente, contiene le infinite possibilità dell’esistenza. È in questo stesso rovello teorico che si imbatterà Cesare Pavese; rovello che risolverà teorizzando la corrispondenza tra destino e libertà. Anche per Pavese dunque, allo stesso modo che per Melville, la ybris, intesa come libertà recalcitrante, e il destino, si implicano reciprocamente. Allo stesso modo del mito, anche il destino, per lo scrittore piemontese, è profondamente ambivalente: “schema formale e grumo informe” [4] ad un tempo. Ma questa consonanza di visioni tra i due autori piuttosto che essere il frutto di un contatto di tipo letterario, sebbene complesso quale la traduzione [5], ci sembra avere un’origine archetipica nella scissione della personalità tra componente inconscia e coscienza (“il massimo dei contrasti è fra l’inconscio e il conscio”, scriverà Pavese in una nota del DIARIO da noi già menzionata). È questo l’evento che innesca quella dimensione ermeneutica dell’esistenza che è fondante – a ben vedere – tanto l’atto della scrittura quanto le altre espressioni artistiche (paradossalmente, allora, sarà proprio il pensiero logocentrico che genera la cultura e le convenzioni stabilite a innescare le forme di rappresentazione mitico-simboliche).

A testimonianza della centralità del tema del destino nella sua poetica, Pavese trarrà le fila sull’argomento nel fondamentale saggio, intitolato appunto La poetica del destino, scritto il 13 gennaio 1950 e pubblicato postumo, dove sintetizzerà così l’essenza della sua poetica: “Diremo quindi che questa poetica riduce ogni sforzo creativo alla lotta tra la libertà umana e la mitica fissità naturale. Le varie ‘poesie’ saranno gradi vari di riduzione del comportamento umano a destino” [6].

L’ambivalenza del concetto pavesiano di destino è tale “che fonda l’antitesi libertà/razionalità per poi tentare di superarla precisamente attraverso il concetto che la crea: il destino stesso” [7]. Ecco a tal proposito una nota rivelatrice del DIARIO, in data 2 Gennaio 1950:

“Il destino è ‘abbandonarsi’ e vivere la pienezza, che poi si chiarisce coerente e costruttiva.

È destino ciò che si fa senza saperlo, abbandonandosi. In un dato senso, ‘tutto’ è destino: non si sa mai quel che si fa. C’è una piccola e razionale consapevolezza che morde in superficie e noi abbiamo il dovere di profondire al possibile. Ciò che resta in conoscibile [...] è il destino”.

Su questo irrisolvibile paradosso pavesiano “ruoterà – come nota giustamente Maria de las Nieves Munĩz Munĩz – la personale ricreazione del mito di Edipo: da un lato la libertà, che è nel contempo cecità e scelta volitiva; dall’altro il destino, che appare come rassicurante ricostruzione razionale dei fatti bruti, ma anche come una forza deterministica e arbitraria” [8]. È proprio nel dramma di Edipo (riscritto in due dei DIALOGHI CON LEUCÒ: I CIECHI e LA STRADA), cui toccherà d’imbattersi nel destino cercando di sfuggirgli, che il paradosso pavesiano troverà una sintesi:

“EDIPO:

Ogni cosa che faccio è destino [...] Dovevo andare e capitare proprio a Tebe.

Dovevo uccidere quel vecchio. Generare quei figli. Val la pena di fare una cosa ch’era già come fatta quando ancora non c’eri? [...] Vorrei essere l’uomo più rozzo e più vile purché quello che ho fatto l’avessi voluto [...] E la mia febbre è il mio destino – il timore, l’orrore perenne di compiere proprio la cosa saputa.

MENDICANTE:

Un giorno non c’eravamo, Edipo [...] Sto per dire che anche il tuo desiderio di scampare al destino, è destino esso stesso [...] Si cerca una cosa e si trova tutt’altro. Anche questo è destino” [9].

Pavese individua il destino-archetipo nella circolarità viziosa dell’alternarsi della vita e della morte, insita nella natura biologica dell’esistenza umana, che si manifesta nella sessualità (qui è certamente presente la lezione freudiana). Sarà Tiresia, l’indovino cieco che svelerà il destino di Edipo, a sintetizzare questo concetto nell’altro dialogo che ha per protagonista lo sventurato figlio di Laio.

Il tema del destino, nella produzione dei nostri due autori, sembra essere connesso a quello del ritorno, che si configura come un ritorno nella zona del rimosso (o del represso), la zona del trauma sessuale, del passato che serba le fantasie edipiche. In MOBY DICK il tema del ritorno è ben rappresentato dal mito di Giona, il profeta biblico che, sfuggendo alle proprie responsabilità, si rifugia in una nave e quando, ormai preso il largo sopraggiunge la tempesta, si nasconde nella stiva, spingendo in seguito i marinai a buttarlo negli abissi dove viene inghiottito da un pesce. Carl Gustav Jung individuò, partendo dal racconto biblico, un “complesso di Giona e della balena”, dove la regressione nell’ “oceano” della vita istintiva, simbolo dell’esistenza prenatale, è il sintomo del rifiuto delle responsabilità connesse al ruolo paterno [10].

Harold Fisch segnala che

“la ‘discesa’ di Giona nel ventre della nave e la sua successiva ‘discesa’ nel ventre della balena [...] siano omologhe alle storie antiche implicanti la discesa dell’eroe agli inferi per sconfiggere le forze del caos. E alle spalle di tutte le storie di questo tipo c’è l’allusione all’oceano o agli inferi quale ‘milieu primordiale dove ha inizio la vita’. ‘Il pesce inoltre, con le sue connotazioni di vita e di fecondità, rafforza l’analogia con il ventre materno e acquista un significato radicato nelle misteriose origini della vita’” [11].

Il tema di Giona, come nota giustamente Enzo Paci, “è la chiave del romanzo di Melville” [12]. Esso è visibile nella doppia prospettiva di Ahab e Ismaele. Entrambi, infatti, compiono un ritorno, che si configura come un ritorno nella zona del rimosso, nell’inconscio; allo stesso modo di Giona la “regressione” di Ismaele si presenta come un viaggio in mare e, allo stesso modo di Giona, Ahab, prima di lanciare la sua sfida alla Balena Bianca, è rinchiuso nella stiva, la pancia della nave. Ma mentre per quest’ultimo, il ritorno nel passato che turba è fonte d’ulteriore turbamento, turbamento che genera aggressività e atteggiamento di sfida e di lotta estrema all’esistenza - materializzata nella balena, ma che si rivela come la lotta alla riemersione del proprio rimosso, dell’ “altro” in termini junghiani, -, per il primo, invece, la regressione nella zona originaria del trauma edipico è un modo per rivalutare positivamente la propria esistenza. Per Ismaele, come per Giona, “la balena non è la fatalità del male, ma la possibilità del bene, la possibilità di trasformare il negativo in positivo” [13].

Il tema del ritorno è protagonista di uno dei più riusciti romanzi pavesiani: LA CASA IN COLLINA, dove la guerra e la Resistenza sono in realtà soltanto lo sfondo ad una riflessione di carattere morale ed esistenziale di notevole efficacia e profondità. Anche quello di Corrado, l’intellettuale (alter-ego di Pavese) protagonista del romanzo, è un ritorno nella zona del rimosso, della colpa originaria, che si materializza nel ritorno ai luoghi dell’infanzia, alla collina anch’essa intesa (allo stesso modo dell’oceano ismaeliano) come ventre materno, luogo in cui si rivela la verità dell’esistenza. In questo senso LA CASA IN COLLINA è “un libro-esame di coscienza” [14], in cui emerge il vistoso senso di colpa dello scrittore, messo alla prova dalla presenza di Cate, la protagonista femminile nei panni del Super-io razionalistico. Secondo Elio Gioanola il ritorno compiuto nel romanzo attraverso lo spazio, dalla città alla collina, luogo dell’infanzia, “corrisponde a un ritorno attraverso il tempo al punto in cui il tempo non esiste più, dove [...] si scoprono i simboli essenziali e significativi, la collina, la vigna, il falò, nei quali è riposto, oltre i rovelli e i rimorsi della coscienza, l’oscuro significato del vivere e del morire” [15]. Ma il viaggio di Corrado nella prospettiva della colpa, allo stesso modo di quello di Ismaele, è volto a superare tale prospettiva e proiettare la vita in una nuova dimensione di libertà e trasformazione; in questo senso ha ragione Enzo Paci quando sostiene che bisogna riconoscere il passato, l’eredità negativa della colpa, “perché la libertà sia possibilità e trasformazione” [16].

Non è un caso che LA CASA IN COLLINA ci offra la vetta più alta dell’umanesimo pavesiano nella riflessione di Corrado che occupa il finale del romanzo:

“Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato [...] Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noi altri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi [...] Ci si sente umiliati perché si capisce [...] che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione” [17].

Il sentimento profondo di umanità, assimilabile alla carità cristiana, che scaturisce da questo brano, sferra un duro attacco allo storicismo progressivo figlio del pensiero logocentrico e metafisico.

Come nota Armanda Guiducci, nel romanzo si fa strada “un senso ultimo di nichilismo vero e proprio: nella storia (dove non esiste vera pace, vera salvezza per l’uomo), si ripete, nell’orrore e nel sangue, la distruzione che è eterna qualità ‘selvaggia’ dell’essere, la cui essenza, dionisiaca e nietzschiana, sta nell’eterna creazione e distruzione di sé” [18]. Ma è proprio questa consapevolezza, questa amara presa di coscienza, a proiettare l’esistenza in una nuova prospettiva di verità. È questo l’ultimo grido del Pavese scrittore. Il viaggio di Ismaele-Melville e di Corrado-Pavese nel passato che turba, “destabilizza il presente scaraventandolo nella lunga prospettiva della colpa e in tal modo ci sfida a riconsiderare la nostra civiltà e le nostre vite” [19], con “la stessa forza, lo stesso effetto di provocazione del mito dell’eterno ritorno di Nietzsche” [20].


NOTE

[1] Herman Melville, MOBY DICK, trad. It. di C. Pavese, Milano, Adelphi, 1994, cap. XLVII, pp. 244-45
[2] Per una visione del mito che tenga conto della dialettica complementare tra necessità ed accidentalità, mito e logos cfr. G. Dorfles, L’ESTETICA DEL MITO, Milano, Mursia, 1967.
[3] MOBY DICK, cit., cap. XLVII, pp. 311-12.
[4] M. de las Nieves Munĩz Munĩz, INTRODUZIONE A PAVESE, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 161.
[5] Le traduzioni pavesiane di MOBY DICK, lo ricordiamo, sono due. La prima esce nel 1932 presso l’editore Frassinelli; la seconda, riveduta, esce nel 1941.
[6] C. Pavese, LA POETICA DEL DESTINO, in SAGGI LETTERARI, Torino, Einaudi, 1968, p. 313.
[7] Munĩz, cit., p. 134-35.
[8] Ibidem.
[9] C. Pavese, DIALOGHI CON LEUCÒ, Torino, Einaudi, 1999, pp. 65-68.
[10] C.G. Jung, SIMBOLI DELLA TRASFORMAZIONE, in Opere, V, Torino, Boringhieri, 1970, citato da H. Fisch, UN FUTURO RICORDATO, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 182.
[11] Fisch, cit., p. 182.
[12] E. Paci, MOBY DICK E LA FILOSOFIA AMERICANA, in IL MITO DI MOBY DICK ED ALTRI SAGGI AMERICANI, Roma, Editori riuniti, 1988, p. 26.
[13] Ibidem.
[14] E. Gioanola, CESARE PAVESE. LA REALTÀ, L’ALTROVE, IL SILENZIO, Milano, Jaca Book, 2003, p. 35.
[15] Ibidem, p. 36.
[16] Paci, cit., p. 24.
[17] C. Pavese, LA CASA IN COLLINA, in TUTTI I ROMANZI, Torino, Einaudi, 2002, p. 484.
[18] A. Guiducci, INVITO ALLA LETTURA DI PAVESE, Milano, Mursia, 1972, p. 97.
[19] L. Coupe, IL MITO. TEORIA E STORIA, Roma, Donzelli, 1999, p. 98.
[20] Ibidem.