26/11/07

RISALENDO VERSO TERRA: su Adriano Sansa, IL DONO DELL'INQUIETUDINE

Genova, Il Melangolo, 2003


È un libro forte, drammatico, metafisico. Proprio per questo, e perché la riflessione sulle tematiche non metta in ombra la forza dello stile, vorrei cominciare dallo stile e sottolineare subito una scelta che ritengo pienamente riuscita.

La lingua di questo canzoniere è una lingua che è bella, non si fa bella. È una lingua che ha trovato un registro di moderna classicità, senza che si avverta lo sforzo di escludere - come di fatto sono esclusi - arcaismi, neologismi, residui dialettali. È una lingua che mette in evidenza una musicalità naturale, contenuta in endecasillabi misurati.

Ho seguito il suo periodare disteso e denso, che pretende un ascolto anche interiore. Per il tramite di questa lingua sono stata introdotta nel segreto stesso di una vita, dei suoi interrogativi, delle sue tempeste, accompagnata con discrezione, nei luoghi della storia personale, dentro le accensioni, le tenerezze, l'impegno e l'accidia, le bufere responsabili di quella storia.

La dignità di una persona pianamente espressa - come esigeva anche Montale - è questo che mi ha colpito? Lì si pone la distinzione tra i molti libri che si sfogliano e i pochi che si leggono con passione, col desiderio di arrivarne a fondo, di capirne il progetto?

Quel progetto è, nel libro di Adriano Sansa, un impegno a sentire tutta la vita, la natura, gli affetti, degnamente, profondamente, nella consapevolezza dei propri limiti: "Non posso camminare sulle acque / e la sera risalgo verso terra".

Sentire la natura.

Dove si vive, per Adriano Sansa, sono scogli affacciati sul mare, nell'abbraccio di un golfo. Sono strade ripide e strette che salgono verso la collina. Le città, certamente, sono abitate da genti amichevoli o pettegole, hanno odori, sono decorate da brillanti vetrine. La vita tuttavia, essenzialmente, si svolge a contatto degli elementi naturali, appassionatamente conosciuti e amati: terra, mare, vento.

Nel vento onnipresente in queste liriche, vento ligure o istriano, risuona un grido infinito. Vi ho udito l'eco del lamento di Qohèlet: "Va verso sud e gira verso nord il vento. / Il vento nel suo cammino non fa che girare: / ritorna sempre sulle sue spire. / Tutti i fiumi scorrono verso il mare /... Niente di nuovo sotto il sole".

Prima che metafora del soffio e del mutamento - come è nel Libro sacro - il vento è qui forza fisica che agita il mare, spinge le vele. Ma lungo quel mare, lungo quell'aspra costa, nella luce e nella variazione dei paesaggi, l'energia degli elementi e lo spirito dell'uomo sembrano ripetere la delusione e il lamento del testo sapienziale. Così Adriano Sansa: "Ed era tutto vero, questo l'orlo / e quelle le colonne, non s'è aggiunto / un minimo spiraglio".

Sentire gli affetti.

Un libro così completo e complesso prevede varie e differenti letture, ma lasciamo ora che, semplicemente, si apra sulla prima lirica. Lirica d'incontro e d'amore immediato, sebbene proprio l'elemento della mediazione appaia subito in primo piano e sostanziale:
"Io ti ho vista quel giorno che credevi / di specchiarti nei vetri".
In questo incipit due predicati che riguardano lo sguardo ("[…] ti ho vista […] specchiarti […]") sono legati dalla fragilità di quel "credevi" che sconvolge la realtà immobile, la nega e la riverbera in un numero indefinito di specchi. Il pronome di prima persona esplicito e forte, in positio princeps, rivela che i vetri non furono allora che lo schermo proiettato dallo sguardo innamorato, lui sì, unico creatore di un'identità resa santa dall'amore: "il sole si abbassava a venerarti / da soglie di botteghe".

Nei versi successivi le parole: colpa, segreto, strada diversa, pendenza discreta, si pongono lungo linee di fuga, vana difesa contro l'irrinunciabile destino. Repentinità ingenua e insieme letteraria ( repentinità indifesa e letterarietà come caratteri costanti dell'amore) che rimanda per contrasto e similitudine al classico dei classici della poesia amorosa : "[…] fui preso e non me ne guardai […]"

Sentire la vita.

Certo questo libro (soprattutto nella prima parte) è un canzoniere per la donna amata, ma è anche inno alla vita in movimento perpetuo, nella constatazione talvolta agghiacciante che non potremmo in nessun modo fermare il tempo e neppure simulare la fine del nostro proprio tempo. Una lucreziana malinconia, travasata - forse perchè siamo soprattutto in Liguria - per il tramite di Montale o, come osservavo già, dal vanitas vanitatum di Qohèlet, pervade il libro, senza entrare in aperto conflitto con la più volte dichiarata volontà di sentire religiosamente il proprio destino.

Il movimento della materia è nondimeno oggetto del lavorio della mente, ed è continuamente avvertito e sensibilmente sofferto: "Sotto scorre la lava, fuori il mare / si muove di continuo […]".

"[…] non è vero / che il sommo male sia cambiare stato / come fa l'acqua ogni giorno vivendo / e salendo dai mari e dai ruscelli […]".

"L'acqua che scende nel suo mondo fresco […] forse vede".

Torniamo al titolo, al "dono dell'inquietudine", in cui si avverte la valenza di un ossimoro. "Dono" ha infatti in sé la pacata stasi dell'oggetto che deve essere visto, riconosciuto, apprezzato contraddicendo così all'entità mobile, imprendibile, in-quieta, che - di fatto - è quel dono.
Quell'ossimoro corrisponde alla dialettica tra il sentimento del movimento inarrestabile e la serena realtà di chi - la donna amata - ha vissuto con diversa percezione della vita: "[…] sono cresciuto anch'io confusamente / restando in piedi per qualche prodigio / e m'ha incantato di te quella forma / della pianta diritta che dà frutto / nella stagione giusta […]".

Dialettica che nello sguardo dell'amore è responsabile della bellezza fiera e serena della donna, un personaggio idealizzato e insieme fotografato in dettagli ravvicinati, un personaggio al quale - a tratti - mi pare di riconoscere la stessa freschezza seducente di certe creature caproniane:

"[…] anche tu mi cercavi / con quegli occhi decisi di donna […]"

"[…] il corpo ti portava in gloria / ornata d'aria e di gonne distese […].

All'interno di questo reciproco crearsi e riconoscersi, s'inserisce il dramma di una lacerazione. Riposta e quasi celata nel cuore del libro sta l'ammissione di un segreto. L'evento che ha spezzato la sedentarietà da paradiso, creato la separazione, riportato la differenza, e ha fatto irrompere quel male che determina la storia: "Ho conosciuto quel vento spietato / che si aggira nell'antro della mente".
Siamo tornati al vento, al soffio, che nel suo eccesso si fa devastazione: "[…] notte e giorno / giravano i mulini, mi battevo / con loro senza tregua […]".

Poi il reciproco plasmarsi non si realizza più essenzialmente nell'amore di coppia, ma anche con la natura, gli animali, le piante: "Forse le piante, che sentono, e ho viste / fare fiori diversi se mia madre / le prendeva in sua cura […]".

Il paesaggio tra scogli e mare, in mezzo agli odori del mare, vede altri personaggi entrare sulla scena. Sono i genitori ("Mio padre c'incitava verso il mare […]"), un fratello, una figlia giovane donna nel suo diverso cammino, o vivido e sonoro ricordo: "[…] C'è una voce di bimba che rincasa / e canta forse solo un po' inebriata / o si stringe alla mano della madre / mentre batte il cancello".

Rumori nitidi, discreti: il grido del vento, il crepitare d'una foglia, come se il chiasso estraneo, le estranee apparenze siano da tenersi lontane, al di là della soglia delle esperienze accettate e registrate: "Questa carne difficile fraterna / delle case vicine e delle strade". Dove l'aggettivo etico ("fraterna") è contraddetto da quello critico ("difficile"), che indica rinuncia o rifiuto.

Persino una persona cara, ci sono i giorni, ricorrenze, in cui conviene sia tenuta a distanza: "Tu non venirmi a prendere […] fammi stare / qualche sera in silenzio nel lavoro / e riposare vicino a mia moglie / mentre il mondo si gira tra le stelle / di un gelo limpidissimo".

A giorni, la discrezione anche scontrosa, è rispetto di sé e rispetto dell'altro, non contraddice all'aspirazione dolorosa al bene. E l'indifesa misericordia si fa via via più importante, più consolante, anche se scabra nell'esercizio dei giorni: "Misericordia, ci dice la scritta / e non giustizia, allora pareva / di feroce umiltà quasi bigotta / davanti al mondo che ancora aspettava / la mia forza […] Ma confido / di più nell'altra, la pietà del cuore".


[Piera Mattei]