Roberto Bugliani, LA SALVEZZA DELLA RESTAURAZIONE
O philoi, oudeis philos, “o amici, non vi sono amici”. Questo motto “sibillino” attribuito ad Aristotele che, scrive Giorgio Agamben, “nega l’amicizia nello stesso gesto con cui sembra invocarla” [1], non a caso è stato posto a fondamento del seminario (prima) e del libro (poi) di Jacques Derrida sull’amicizia, POLITIQUES DE L’AMITIÉ. Ho detto non a caso perché così con-formato il motto aristotelico (tratto dalle VITE DEI FILOSOFI di Diogene Laerzio) si presta in modo egregio alla riflessione tardomoderna sull’amicizia e, dunque, sulla filo-sofia (“L’intimità fra amicizia e filosofia è così profonda che questa include il philos, l’amico, nel suo stesso nome”, ricorda doverosamente Agamben). In altri termini, quale migliore autorità potrebbe avallare la riflessione sullo statuto anfibologico o ambivalente della filo-sofia, sulla sua affermazione che è anche negazione, sulla propria presenza-assenza, se non lo stesso Aristotele?
Ma la con-formazione derridiana del moto aristotelico è tale a prezzo di una “trascuratezza”. Scrive sempre Agamben che a partire dal 1616, anno della nuova edizione delle VITE curata dal filologo ginevrino Isaac Casaubon, l’”enigmatica lezione” del manoscritto laerziano venne da quest’ultimo corretta in oi philoi, oudeis philos, ossia “colui che ha (molti) amici, non ha nessun amico”. Legebatur O philoi, emendavit Casaubonus, ed è con questo emendamento effettuato in nome dell’intelligibilità che il motto aristotelico è stato accolto dagli editori moderni.
Accortosi di ciò, Agamben provvede a informare Derrida del risultato delle sue ricerche, ma grande è il suo stupore quando, a pubblicazione avvenuta di POLITIQUES DE L’AMITIÉ, si accorge che di tale correctio nel libro non v’è traccia. Al discorso di Derrida faceva gioco la versione presuntamente “difettosa”, o pre-moderna, o ancora apocrifa (“secondo i filologi moderni”, precisa Agamben) del motto aristotelico. Derrida, dunque, ha potuto parlare in termini tardomoderni dell’amicizia (e della filo-sofia) a patto di compiere un gesto di restaurazione, ossia ripristinando la precedente versione (non-moderna) del moto aristotelico. Perché, per citare nuovamente Agamben, esiste un disagio dei filosofi moderni allorché questi si trovano a riflettere sull’amicizia e sulle sue politiche.
Mi si consenta a questo punto di introdurre una terza versione, o meglio una terza variazione, del moto aristotelico. Una variatio consequenziale (anche sul piano espressivo-referenziale), per così dire, alla primitiva versione del motto aristotelico, che suonerebbe: “O amici, non ci siete più”. Il che, se da un lato potrebbe apparire come una nostalgica considerazione del soggetto sull’età matura, sul tempo che scorre e le perdite affettive che ciò comporta, dall’altro mette in scena una perdita secca, se mi è concesso il termine, della dialettica di affermazione-revocazione dell’amicizia allestita dal nostro motto e, insieme, dello statuto anfibologico e ambivalente che fonda la filo-sofia (ricordiamo che il cogito cartesiano è l’espediente disperato - perché destinato allo scacco della temporaneità - volto a sottrarre la filosofia al proprio dubbio). Una mancanza radicale, oggettiva, storicamente determinata, priva di residui contraddittori, che il vuoto simulacro (“O amici”) non riesce a mascherare, configurerebbe il nuovo statuto della filo-sofia che da qui ne consegue. Ora, se quel che viene meno è l’amico, ciò che ne prende il posto “colmando” la mancanza sulla scena storica, di cui il soggetto è inevitabilmente partecipe, è il nemico. Venuta dunque meno la possibilità della filo-sofia (senza l’amicizia, osserva Agamben, la filosofia “non sarebbe propriamente possibile”), ciò che permane è il dire violentemente distorto, e per ciò impossibile, della filosofia. E un siffatto stravolgimento non può che risultare mortale per lo stesso pensiero filosofico. Perché l’orizzonte che quel motto lascia intravedere è né più né meno il silenzio del filo-sofo.
Di fronte a tale abisso, Derrida ha compiuto l’unico gesto di salvazione ancora possibile al filo-sofo, ossia la restaurazione filologica e, soprattutto, politica - di cui il titolo del suo libro testimonia -, del motto originario. Per poter continuare a fare filo-sofia, bisogna pertanto ritornare alle origini, con un gesto consapevole di restaurazione. E’ questa l’avvertenza e insieme l’auspicio derridiano. Altrimenti, il filosofo tardomoderno dovrà tradire le proprie premesse categoriali, accettare la sua nuova funzione di anti-filo-sofo e ammettere, magari con estremo disagio, che la filosofia è divenuta una questione da trattare entre ennemis. E della “filosofia” della guerra (magari in mise amichevole per l’Occidente), oggi, i rimbombi aggrediscono in modo squassante e lacerante il nostro udito, impedendoci di percepire l’altro discorso, quello originario, della filo-sofia.
NOTE
[1] 1n L’AMICO, Roma, Nottetempo, 2007.