04/10/07

Lucetta Frisa e Marco Ercolani, DUE LETTERE SEGRETE


[Are we as our eyes see us? Foto di Marzia Poerio]


Anno LXXXIX, il 10 marzo

Per te

se questi tempi sono "crudelmente ostili agli esempi di dignitoso valore", se "il narrare la propria stessa vita" è un "indizio di fiducia nel valore morale delle azioni più che un segno di presunzione", se è vero quello che scrivesti di mio padre Agricola, che visse incorrotto nei tempi del corrotto Domiziano, se è vero che occorre "riandare continuamente nella memoria alle azioni e alle parole di lui e racchiudere nell’animo le linee fondamentali della sua anima più che quelle del corpo", io mi chiedo, io che sono la tua discreta e fedele compagna, potrò meritarmi qualche parola nelle memorie non ufficiali che so stai scrivendo in segreto? Scriverai finalmente il mio nome, quello che non figurerà mai nei libri di storia, il mio nome che solo tu pronunci o sussurri e che fu pronunciato e sussurrato, prima di te, solo da mio padre e da mia madre? Così saprei con ineluttabile chiarezza, di essere esistita, di aver fatto parte - seppure secondaria - della tua vita. Ma alle volte, lo confesso in questa lettera che non ti invierò mai, certa che sarà scoperta solo dopo la mia morte, forse quando qualche serva curiosa rovisterà nelle mie cassepanche, mi sorprendo a interrogarmi se anche tu - così giusto e perfetto come mio padre - non celi un vizio, una perversione, un’infedeltà perpetrata. Se così fosse, io ti ringrazio per avermela nascosta così sapientemente al fine di non incrinare la bella superficie del nostro rapporto, la serenità del nostro universo domestico. Mantenere dei segreti, tra coniugi, è una regola morale al pari di quelle predicate da mio padre in ben altri contesti. Da bambina, quando lo guardavo e osservavo ammirata l’alta considerazione di cui godeva pubblicamente, mi chiedevo se fosse veramente così come lo vedevano i nostri occhi o se invece i nostri occhi fossero incapaci di cogliere tutti gli aspetti della sua persona. Questi pensieri li affido a un foglio sigillato che li può accogliere nel suo silenzio: è un modo, in fondo, per non seppellirli del tutto, in quanto partecipano della memoria, sebbene una memoria privata e quindi minore. Io assomiglio a questi pensieri impronunciabili, io, tua moglie, la parte nascosta di un uomo pubblico e celebre quale tu sei, che frequenti direttamente la Grande Storia e cerchi di discernere il vero dal falso per i posteri, per chi ti leggerà in futuro e potrà conoscere la verità - le invisibili trame dell’ordito che fai emergere alla luce. Quanta responsabilità ti assumi, quanto peso sulle tue spalle di uomo! Il peso della verità dei fatti, la verità che deve combattere per affermare se stessa contro il falso, che ha le sembianze del nemico, simile a quei guerrieri che "portano scudi neri, si tingono il corpo e scelgono per le battaglie notti di tenebra e col solo orrore di questo esercito di neri fantasmi dell’Averno incutono terrore perché nessun nemico può reggere a questa straordinaria e infernale visione, dato che in ogni battaglia i primi a essere soggiogati sono gli occhi". Oh sì, io amerei molto, guardarti dritto negli occhi per indovinare se nelle tue confessioni segrete avrai parlato di noi, delle nostre notti in cui ci abbracciamo con voluttà e tenerezza, del nostro amore e delle nostre conversazioni, ma non vorrei mai avere quella capacità - una virtù divina che per fortuna non mi appartiene - di scoprire in fondo ai tuoi occhi tutta la verità - se fosse dolorosa per me, vergognosa per te. Che nessuno, ed io per la prima, possa mai conoscere certi aspetti del tuo carattere, della tua vita privata, se fosti o non fosti uomo, padre e marito onesto e giusto.

Con amore




Anno LXXXIX ,il 7 settembre

Per te

tu non leggerai mai queste parole e ciò mi rassicura. Non leggerai ciò che io ti scrivo ora, perché lo terrò accuratamente segreto. Ma vivo come se queste parole fossero dei fatti veri. Ti dico che, in questi tempi terribili, sono felice di osservarti respirare. Di non sentire fragore di battaglie e grida di uomini mentre ti sono accanto. Mi sei indispensabile per trovare un equilibrio, mentre scrivo le mie tragiche cronache. Ho bisogno di te. Sono stanco di essere costretto, da storico, a ricordare morti crudeli e deprecabili ingiustizie. Vorrei, in versi delicati, parlare di te, ma non mi è possibile, lo sai, sarebbe indecoroso per un uomo politico. Però tu continua a guardarmi. I tuoi occhi mi salvano dalle malvagità di Agrippina e dalle nefandezze di Nerone. Sanno che, dal fondo di tutti questi orrori, io conservo la capacità di descrivere e giudicare. Perdonami di trattenermi poco con te, di non scrivere di te. Oggi, per esempio, ho da narrare, nei miei Annales, la morte di Ottavia, moglie di Nerone. Ho appena scritto: "La si stringe in catene e le si aprono le vene per tutte le membra; e siccome il sangue agghiacciato dal terrore fluiva troppo lentamente, viene sfinita da un bagno bollente. Si aggiunge poi una crudeltà più tremenda ancora perché, spiccato dal busto, il suo capo fu portato a Roma per farlo vedere a Poppea. E quante volte dovrò ancora ricordare che per simili infamie venivano decretate offerte nei templi?".

Ti tengo lontana da questi orrori, mi piace immaginarti, mentre li scrivo, quando cammini la sera nel peristilio per raggiungermi dopo la cena, e conversare un poco insieme prima di rimettermi al lavoro.

Perdonami se a volte sono scontroso e ti guardo di sfuggita, ossessionato dalle morti sventurate di uomini feroci e corrotti, di donne infelici o lascive di cui devo raccontare. È il dovere dello storico, nell’illusione che, in futuro, persone innocenti e inermi non subiscano la stessa fine. Uno storico deve ammonire e indicare la strada, anche se sarà utile a pochi. Perdona la mia stanchezza, di certi giorni che giaccio accanto a te ma non ti sfioro neppure, benché tu sia giovane e seducente. Mi è difficile non farmi troppe domande sul senso assurdo di tutto quanto accade per volontà degli uomini, domande a cui so di non poter rispondere e che il mio lavoro esclude per principio.

Ma sappi che non ti ho mai nascosto nulla di me. Cerco con ogni mezzo di essere degno delle mie parole.

Amandoti molto.



NOTA

Publio Cornelio Tacito, nativo di Terni, vive tra il 55 e il 120, dal regno di Nerone a quello di Adriano. Oratore e avvocato, affronta la carriera politica grazie all’amicizia di Giulio Agricola, conquistatore della Britannia, di cui nel 77 aveva sposato la figlia. La breve monografia a lui dedicata, DE VITA ET MORIBUS JULII AGRICOLAE, scritta nel 98, è la sua prima esperienza letteraria di tipo non oratorio. Le frasi virgolettate nella lettera apocrifa della moglie di Tacito sono tratte dal libro suddetto e dalla GERMANIA, nella traduzione italiana di Bianca Ceva, Milano, Rizzoli, 1952.