01/09/07

Lucetta Frisa, LA TORRE DELLA LUNA NERA


[Pity the lighthouse tower in La Spezia couldn't be fotographed under a black moon. Foto di Marzia Poerio]


Erano chiuse tutte lì, le strane, le disobbedienti, le favorite che non lo erano più, le donne una volta giovani e belle e che ora, vecchie e lamentose, venivano scacciate dai loro signori, le pettegole che parlavano male del califfo, smascherandone la scarsa virilità e le sue sciocche o perverse manìe, le giovani che non riuscivano a soddisfarlo, le sterili e quelle che si rifiutavano di avere figli e scappavano dalle alcove inseguite dai cani, quelle che desideravano occuparsi di qualcos’altro che non fosse solo incipriarsi e profumarsi in attesa del loro turno e avrebbero voluto scegliere da sé l’uomo da amare invece di subire la scelta, che cantavano e improvvisamente mancava loro la voce, danzavano e si facevano male alle caviglie, sorridevano poco, si ammalavano troppo, si chiudevano in un ostinato mutismo con lo sguardo perduto e rifiutavano il cibo, raccontavano visioni avute nel sonno o in giardino, amavano più gli animali degli uomini, piangevano per una sciocchezza o continuavano a piangere senza motivo per ore e ore. Tutte lì asserragliate nella Torre della Luna Nera, così chiamata perché ospitava donne ribelli e per questo ridotte all’invisibilità, o anche Torre delle Poetesse perché chi la abitava scriveva versi per non impazzire; mentre dalla parte opposta della città, si ergeva la Torre del Sole Nero o Torre dei Poeti. Lì i poeti, o i pazzi d’amore, sospiravano da mattina a sera, e si udivano i loro sospiri fin nelle strade sottostanti; sbattevano la testa contro i muri, chiamavano per nome le loro amate, viste una sola volta o mai in tutta la loro vita, scrivevano poesie sulla bellezza di un dito, di un orecchio o di un sopracciglio, e vedevano seni, nuche, piedi, capelli e occhi femminili dappertutto e si masturbavano gridando e ridendo, raccontavano storie assurde come fossero vere picchiando furiosamente chi metteva in dubbio le loro parole, rimpiangevano l’infanzia fino a tentare il suicidio, e cantavano a squarciagola per non udire mai il silenzio.

Ma nella Torre della Luna Nera o delle poetesse, forse avvenivano più fatti e più turbamenti, si pativano più dolori che in quella del Sole Nero o dei poeti. Le donne, vecchie e giovani, si ingegnavano in ogni modo e maniera per riuscire a sopravvivere e, tra di loro, due ce n’erano dal carattere carismatico: Sheila e Amina.

La prima le incitava a tener duro, a danzare anche se tristi e disperate, ad essere amiche e solidali, raccontarsi sogni e desideri, inventare giochi e canzoni, occuparsi dei fiori, dei gatti, degli uccelli affamati e della semina di nuove piantine per ogni stagione. Interveniva quando qualcuna di loro minacciava una lite o una malinconia esagerata, dicendo parole di pace, rivolgendo gli attriti in scherzo. Amina no, Amina
metteva loro sotto gli occhi la dura realtà di prigioniere senza speranza, accresceva il loro tormento, si ingegnava a fomentare rancori, rivalità e maldicenze. Le umiliava, ricattava e tradiva: voleva vederle soffrire come e più di lei.

Come spesso accade, si formarono due “gruppi”: in quello di Sheila, le giovani più ingenue e meno rabbiose, di una mitezza un po’ folle ma innocua. Nell’altro, di Amina, le più insofferenti e aggressive, con meno illusioni e fantasia, non meno folli delle prime, ma di una follia sempre sul punto di esplodere con imprevedibili conseguenze.

In mezzo a tutte queste donne, gli eunuchi finirono come quei bambolotti su cui le bambine sfogano ansie e capricci. Loro confidenti ma anche spie, orecchi tesi a origliare, occhi pronti a interpretare il non visto o l’appena intravisto; con il compito di sorvegliarle e di riferirne gli eccessi ai superiori, o se qualcosa non andava loro a genio. Infine tutti dipendevano, in modo assoluto, dai malumori del califfo e dai malumori di Allah.

Testimoni ambigui e impotenti, gli eunuchi furono investiti di un ruolo supremo, indiscusso, ogni volta che si bandivano le Gare di Poesia. Succedeva spesso. L’idea di queste gare esaltanti era stata di Amina e di Sheila insieme, che la misero in pratica, sempre di buon accordo, almeno per quelle occasioni. E insieme decidevano il momento della proclamazione del concorso: era quando i livelli di malinconia e d’irrequietezza delle donne oltrepassavano certi limiti, quando l’insofferenza per il loro stato si faceva intollerabile, malgrado le pozioni di erbe soporifere o le bevande inebrianti somministrate dagli eunuchi. Erano assemblee tumultuose che cominciavano di notte per poi interrompersi al mattino e riprendere la notte successiva, finché non si assegnavano i premi alle poesie più votate.

I premi, in sé stessi, non avevano valore. Avevano valore i giudizi.

Ma difficilissima si presentava la scelta.

Quali versi erano più belli e profondi? Questi…

Ho avuto un invito ad amare e l’ho accolto. Ora
le lacrime scrivono sulle guance le mie pene d’amore.
Rivelano quello che voglio nascondere, nascondono
quello che vorrei rivelare…

Oppure …

Quando scorrono le mie lacrime assomigliano al vino
perché l’occhio contiene un liquore simile a quello nel bicchiere
Per Allah, io non so più se le mie ciglia hanno versato vino
o se ho bevuto le mie stesse lacrime. Forse in due maniere
si può raggiungere l’estasi: nell’amore e nel pianto.

Quale delle due poesie meritava il premio?

E ancora:

Fui inebriata dai suoi occhi e non dal suo vino
è stato il suo passo deciso ad allontanare il sonno
non mi ha distratto il vino ma il suo collo
non mi ha esaltato il liquore ma la sua voce.
La mia fermezza vacilla per i suoi capelli
e quello che la sua veste cela, i sensi mi rapisce.

O questa?

Si è levato sulla fredda torre un vento di primavera
o dolce vento vieni verso di noi, ognuno
ha la sua sorte e la sua parte in questo dramma,
tu abbi compassione di chi ama e sogna invano
e accarézzalo come un raggio di luna un fragile ramo.

Gli eunuchi erano sempre molto indecisi nei giudizi. Giudicare una poesia non è facile. Il loro imbarazzo mandava su tutte le furie le poetesse che si affannavano a conquistare i loro voti attraendoli con coccole, regali e favori di ogni genere, poi li picchiavano con una verga se non votavano per loro, strappavano i pochi peli delle loro barbette, lanciandogli addosso le coppe vuote o piene di vino e ogni sorta di oggetto a portata di mano. Infine, li travestivano nel modo più ridicolo facendoli sfilare sotto i loro occhi come bestie ammaestrate e… lunghe e larghe risate risuonavano per tutta la torre, cristalli, specchi e lampade tintinnavano. I cani cominciavano furiosamente ad abbaiare. L’apice del divertimento era raggiunto.

Gli eunuchi si vendicavano. Anche loro erano bizzosi e infidi come e più delle donne. Consumavano le loro vendette secondo il livello di gravità delle offese. Se giudicate tollerabili, si facevano giustizia per conto proprio: ecco che una poetessa inciampava, per caso, sui gradini delle scale o sul bordo di un tappeto, un’altra appariva con il corpo e il viso coperto di bruciature. Oppure - e questa era, tra le vendette, la più perfida - cominciavano a parlare del mare.

Parlavano della sua bellezza che guariva ogni male del corpo e dello spirito. Il mare che loro non avrebbero mai visto perché mai sarebbero uscite dalla Torre della Luna Nera: gli ordini erano quelli e, se avessero solo tentato di opporvisi, una morte atroce le attendeva. Dicevano che era vicino, proprio dietro la Torre e quindi alle loro spalle, ma era come se non ci fosse, perché le sue finestre si affacciavano tutte all’interno del cortile.

Quando le offese erano considerate molto gravi, gli eunuchi le riferivano al sottosegretario del califfo, e se il sottosegretario aveva interesse ad ascoltarli, per un qualche motivo, o anche senza motivo, trovava subito il modo di compiacerli. E un bel giorno, una certa poetessa non c’era più. Nessuna traccia di lei: sparita come un’ombra al sole impietoso del mattino. E con lei i suoi abiti e i suoi oggetti personali: e i suoi versi, cancellati per sempre, come non fossero mai esistiti.

Si diceva che la calassero, ancora viva, dentro uno dei pozzi del cortile, abbandonandola lì fino alla morte. Tutte le notti, chi aveva l’udito sottile, poteva infatti percepire i suoi lamenti soffocati, le sue strazianti invocazioni di cui nessuna parola si distingueva. Quelle voci sotterranee di dolore si mescolavano per un po’ di tempo al dolce gorgogliare delle fontane. Per un po’, finché a un tratto, una notte, ecco che ritornava il silenzio.

Furono questi avvenimenti a suscitare in Sheila e Amina un’altra idea straordinaria: suggerire alle compagne di inventarsi una lingua propria, un linguaggio oscuro simile a quello che saliva, di notte, dal fondo dei pozzi quando una di loro, malauguratamente, li abitava: un linguaggio da tradurre in versi musicali e misteriosi, assolutamente inaccessibili agli eunuchi.

Era un modo di comunicare solo tra loro.

Scelsero, per i versi, una parola-chiave, simile a un segnale d’intesa che li apriva tutti.

Questa parola-chiave fu la parola mare.

Oggi mi sono svegliata cantando e cantando ho aperto il mare
Liulao fanderho dahab salam hiulhaooo
nessuno mai lo chiuderà soliuhoo bilam bilah
nur la porta e nur seppur non basta il canto
ma il coraggio, lo voglia o non lo voglia Allah…

Recitava una poetessa, alzandosi in piedi, con voce soavissima.

Al lume di candela ho visto gli occhi delle mie compagne
erano di fuoco più del fuoco perché salubaradan samar sul mare
danzava la nur della nostra luna aperta novelan liubah
ed eravamo sayed sayad viranjubad a un tratto libere…

Rispondeva un’altra con un’intonazione che metteva i brividi.

Ho capito che Allah non si schiera da nessuna parte
da quando kukkikan el devaz coffh coffhan lubeilubai
e perciò una notte shulian shuliei shuliai Sheherazai
il mare mahmad mahmadai noi insieme mahmadà
la porta, con o senza la volontà di Allah…

Le faceva eco un’altra, quasi tremando.

- Che cosa dite? - chiedevano gli eunuchi, strabiliati.
Le donne ridevano.
- Siete diventate pazze? Che modo è questo di fare poesia?
Gli eunuchi cominciavano a innervosirsi.
Le donne ridevano.
- Perché ridete? Smettetela! Siete diventate stupide?
Le donne ridevano.
Si andò avanti così per diverse notti. Le poesie sempre più misteriose, le donne più euforiche, gli eunuchi più rabbiosi.

Nelle notti di luna nera era tradizione far scorrere molto vino; mescolandolo a droghe diverse, tutte le donne, giovani e vecchie, sane e malate, si davano sfrenatamente a danze voluttuose insieme agli eunuchi ; che, nei fumi dell’alcool, battevano piedi e mani dalla contentezza. Tra una danza e una coppa di vino, tra canzoni, carezze lascive, baci e ancora vino, in una di quelle notti senza luna, le poetesse prigioniere fecero ubriacare più del solito gli eunuchi, e con gli eunuchi, le guardie della Torre: quando li videro piombare nel sonno come sassi, si misero a spingere tutte insieme la sua grande porta. E la spalancarono.

Via le ciprie, i profumi, la pigrizia, la noia, la malinconia, la schiavitù. Se ne andarono così, con i soli abiti che avevano indosso, di corsa verso il mare.

Non si saprà mai a quale destino andarono incontro: chi di loro tornò indietro e fu cacciata, torturata o comunque punita dolorosamente, chi cercò i parenti e non li trovò e per chi li trovò fu peggio per loro; chi si inoltrò nel deserto a seguito di carovane e si perse, chi finì tra i mendicanti davanti alle mura della città, chi con la complicità di persone compassionevoli fu aiutata a travestirsi da uomo e si arruolò come mozzo su navi da carico e quando venne scoperta divenne la prostituta della ciurma; chi si ammalò di malattie incurabili, si avvelenò, fu la sposa triste e disprezzata di qualche marinaio povero o mercante ricco, chi venne lapidata sulla pubblica piazza per ordine del califfo o per il capriccio di qualche suo sottosegretario, chi corse nuda sulla spiaggia e si abbandonò per sempre alla furia del mare.

Non si sa veramente come finirono tutte le poetesse della Torre della Luna Nera che vollero fuggire per vedere il mare.

Molte, da quella notte, cominciarono a chiedersi: fui o non fui un giorno prigioniera di una torre? Si chiesero se erano state vittime di un incubo o se l’incubo era quello che stavano vivendo, ora che erano libere. Si chiesero se fossero cadute in una prigionia peggiore della prima. Se a fuggire da quella torre ne era valsa la pena. Tutte domande senza risposta che, dietro i veli delle metafore, continuarono a porsi nei loro versi, consapevoli di voler proseguire, in questo solo modo possibile, il loro impossibile sogno.