15/07/07

Giuseppe De Santis, NON C'È PACE TRA GLI OLIVI

Una sera d'estate, questa, in cui non siamo usciti, abbiamo messo una vecchia videocassetta e abbiamo visto uno dei film del neorealismo. Ci piace il cinema indiano e abbiamo riconosciuto in questo film italiano, con la regia di De Santis e la sceneggiatura del medesimo assieme a De Libero, Lizzani e Puccini, certi tratti del senso di giustizia di varie pellicole di registi dell'India: la globalizzzazione ci aiuta a vederci in un quadro più ampio del locale.

In NON C'È PACE TRA GLI OLIVI (1950), si osserva una comunità fondata sulla ruralità, la pastorizia, il nomadismo: una società in cui le regole dello Stato centralizzato si scontrano con connivenze e soprusi di prepotenti e la diffidenza degli oppressi.

È la storia di Francesco Dominici (Ralf Vallone), un pastore della Ciociaria, al quale l'usuraio Agostino Bonfiglio (parte di Folco Lulli) ha sottratto le pecore. Il protagonista cerca di riappropriarsene e di salvare il fidanzamento segreto con Lucia Silvestri (interpretata da Lucia Bosé), che dovrebbe invece andar sposa, per interessi economici, proprio all'usuraio. Francesco finisce in carcere, non difeso dalla testimonianza dei compaesani e nemmeno dalla stessa ragazza che pure lo ama, per timore di rappresaglie. Solo quando le soperchierie dell'arricchito si moltiplicano, i pastori si uniscono, fanno scudo attorno al collega fuggito di prigione. Viene punito il colpevole delle ingiustizie da un suicidio di fronte all'inevitabile smascheramento; ha frattanto anche ucciso Maria Grazia, la sorella di Francesco (il cui ruolo è di Maria Grazia Francia), che era stato costretto a sposare per riparare alla violenza che aveva esercitato su di lei, in luogo della giovane da lui ambita. La storia si conclude con un ravvedimento del protagonista, il quale si consegna alla giustizia. C'è nelle ultime parole la speranza di un esito positivo del nuovo processo che si istruirà.

Il narratore è fuori campo, come in FONTAMARA di Silone. Nell'aula del tribunale gli avvocati parlano di fronte a un imputato costernato una lingua da Azzeccagarbugli; e l'accusato è un po' come un Renzo in cerca della sua Lucia.

Qualche sottotono da western tra una recitazione di stampo verista.

C'è un saltarello; si sentono canti popolari nello sfondo; si vede una processione religiosa alla Madonna per la Pasqua; in breve, il fondo antropologico è marcato.

La lingua non dialettale ha un accento regionale.

A volte si prova nostalgia per queste storie eterne nelle passioni che evidenziano; e solide nel tipo di società storicizzata che rappresentano tramite una tipizzazione dei personaggi.

Abbiamo dimenticato in fretta che eravamo come il film descrive, non troppo tempo fa.

[Renato Persòli]