05/04/07

Mira Nair, THE NAME SAKE (IL DESTINO NEL NOME)

Sceneggiatura di Sooni Taraporevala. Tratto dal romanzo di Jhumpa Lahiri. Con Kal Penn, Tabu, Irfan Khan, Jacinda Barrett and Zuleikha Robinson.


Tra i film precedenti di Mira Nair ci sono rimasti più di altri impressi nella memoria SALAAM BOMBAY (1988), storia di smarrimento e ritrovamento, di difficoltà sociale e personale, di un bambino abbandonato e dei quartieri diseredati della città di Bombay; e MONSOON WEDDING (2002), storia di una riunione di famiglia per un matrimonio di quattro giorni, gioviale e satirico, colorato e vivace.

THE NAME SAKE (trad. italiana IL DESTINO NEL NOME) ha una sua meditata lentezza che non annoia, ma si dipana con maggiore cautela di movimenti degli altri due film citati.

Ashoke Ganguli (Irfan Khan), emigrato negli Stati Uniti, sposa Ashima (Tabu) con un matrimonio combinato in India e vanno a vivere a New York. Ottima la recitazione di questi due protagonisti, i quali ben delineano le difficoltà, reticenze, gentilezze e quotidianità di una coppia nata da una decisione solo in parte dipendente dalla loro volontà, ma i cui due componenti sono in grado di creare una relazione solida e ben impostata. La loro storia è seguita fino alla generazione successiva: la figlia sposerà un americano; il figlio, inizialmente americanizzato, dopo una relazione con una newyorkese, in seguito alla morte del padre, ritroverà le proprie radici...

Pare non sia buona abitudine raccontare proprio tutto quel che succede in pellicole appena uscite sugli schermi, per cui, mordendoci la lingua, dato che per noi l'intreccio è al centro di ogni storia e senza quello la storia non c'è, così come non c'è racconto senza una fine, ci fermiamo qui, spiegando però che il titolo è dovuto al nome assegnato al figlio di Ashoke e Ashima: Gogol.

Gogol, altro suo nome Nickil, inizialmente respinge questa identità, ma la accetta quando si reintegra più pienamente nella propria comunità. Chi vive tra due culture conosce questa problematica: e oggi nel mondo non sono in pochi. Motivo cruciale in questo film è dunque la trattativa interiore per l'identità in una situazione intrinsecamente ibrida tra due culture e due lingue. Il destino onomastico del giovane del film è quello di essere respinto dalla società di accoglimento perché il modo in cui si chiama non corrisponde alle aspettative della maggioranza dei coetanei. Il nome viene però accettato quando si riassocia alla sfera del padre. In età adulta, tramite un processo di maturazione, si dà una pacificazione col genitore dopo una ribellione adolescenziale. Il personale si trasfonde nel sociale, insomma; e viceversa.

Ferma è l'identità genitoriale, senz'altro indiana in Ashima, e traspare dal modo di vestire e dalla gestione dei rapporti familiari; mediato senza perdita di radici è il livello di integrazione di Ashoke; e risulta interessante l'equanimità della decisione di Ashima, a un certo punto, di vivere sei mesi in India e sei in America.

Perché Ashoke ha chiamato Gogol suo figlio?

Un po' per caso: un ospedale occidentale non può dimettere un neonato in attesa che vari parenti dall'India gli scelgano un nome… Quindi lì per lì lo si chiama come lo scrittore preferito dal padre… in attesa del nome vero. In breve: l'identità è impermanente, provvisoria.

La questione, tuttavia, è perché sia stato scelto proprio quell'autore. In parte siamo costretti di nuovo, per mantenere la suspense sul film, a non rivelare quale aspetto del passato di Ashoke sia legato a Gogol; ma ad altri livelli egli spesso dichiara la propria preferenza per il narratore russo, e soprattutto per IL CAPPOTTO, e alla fine ce lo siamo ripassato questo racconto, senza peraltro, lo si confessa, capire fino in fondo l'allegoria del nome come l'hanno intesa Lahiri e Nair: forse per la satira della società contemporanea? Forse perché il cappotto indossato in Gogol viene poi rubato e con quello se ne va l'identità acquisita che era così vana? Insomma per il disadattamento sociale…

Quanti punti di sospensione in questa recensione: a noi, con punto fermo, il film è piaciuto.

[Renato Persòli]