18/03/07

Alejandro González Iñárritu, BABEL



[One of the Babel towers as they are today. Foto di Marzia Poerio]


















Tre linee narrative si separano per intrecciarsi in questo film. In Marocco due ragazzi provando un fucile colpiscono per sbaglio Susan (Cate Blanchett), un'americana in viaggio col marito Richard (Brad Pitt) su un autobus turistico: l'autobus si ferma in un villaggio nel quale la donna viene curata con mezzi rudimentali, quelli ivi disponibili, finché i compagni di viaggio decidono cinicamente di ripartire abbandonando la coppia, infine l'arrivo di servizi medici tramite un elicottero la salva; la crisi matrimoniale determinatasi all'inizio del film si risolve nella solidarietà tra i due coniugi, una solidarietà espressa anche da parte di chi li ha ospitati e ha tentato di curarli. Frattanto in California, dove risiedono Susan e Richard, la badante dei due figli, Amelia (Adriana Barraza) li porta alle nozze del proprio figlio in Messico, ma un malinteso alla frontiera al rientro provoca una fuga da parte di chi li riaccompagna negli Stati Uniti. Costretti a passare la notte nel deserto, i bambini vengono salvati; i genitori non sporgono denuncia; ma le autorità dell'immigrazione, ritrovato il fuggitivo, costringono Amalia a rientrare in Messico perdendo il lavoro che ha sempre svolto scrupolosamente e con affetto per i ragazzi di cui si occupava. Il fucile da cui è partito il colpo che ha dato l'avvio al film apparteneva originariamente a un giapponese, del quale vediamo alcuni interni di famiglia a Tokio: la moglie morta suicida, lui che si occupa della figlia adolescente, Chieko (Rinko Kikuchi), sordo-muta e sofferente di solitudine e disadattamento. I ragazzi marocchini vengono alla fine arrestati; e nello scontro con la polizia uno di loro resta ucciso.

I racconti interagenti su scala planetaria (oggi anche un piccolo evento ha ripercussioni totali) sono accomunati nella recensione di WIKIPEDIA da un "senso tragico del mondo", per cui "BABEL non è un film sull'incomunicabilità del mondo post-moderno, BABEL è il film sulla comunicabilità attraverso il linguaggio del dolore". Secondo "Time out" [http://www.timeout.com/], il motivo dominante è l'infelicità in un film "energetic but thoroughly depressing and shallow".

Shallow (cioè superficiale) non ci pare affatto; e se il dolore e l'infelicità sono certo presenti in BABEL, a noi sembra che la tematica autentica consista nell'incrocio tra l'umanità, l'identità e l'ingiustizia, che sono anche tre delle dinamiche presenti nella globalizzazione odierna.

L'umanità, in termini di solidarietà, pare l'unica salvezza dalla disumanizzazione tardomoderna e un valore etico essenziale da preservare nel generale decadimento delle ideologie attraverso le frontiere della Babele culturale e sociale del mondo.

Il valore umanità attraversa le classi sociali, ma il film di Iñárritu mette bene in evidenza anche i fattori di disuguaglianza, mostrando come chi più ci rimette, di questi tempi, sia chi ha meno ed è esposto all'ingiustizia di istituzioni prepotenti, in Marocco come negli Stati Uniti.

L'identità mista contemporanea e le sue crisi emergono dal contatto tra i marocchini e gli americani; tra la città (Tokio) e la campagna (i monti dell'Atlante e il deserto californiano); nella difficoltà individuale di esprimere il sé (la ragazza giapponese); nella differenza tra culture addirittura confinanti (Messico e California).

C'è un elemento di fatalità nell'atto inconsulto di due ragazzi che giocano con un'arma e mettono in movimento eventi su scala mondiale: sospetti di terrorismo e una macchina poliziesca che li stritola; né per questo essi vengono assolti dal regista per quanto hanno commesso; ciò che si dimostra, tuttavia, è la sproporzione della pena che pagano e che in un mondo più umano e più giusto dovrebbe non comportare la morte, pur se quasi inevitabile per come essa accade nell'economia di questa storia di destino infelice.

Il regista dichiara a "Leonardo" [http://filmup.leonardo.it/]: "In questo caso si vede come l'ignoranza, l'irresponsabilità e l'immaturità possano inconsapevolmente portare alla spirale dell'odio e della violenza". Osserva inoltre: "il mio non è un film sulla tolleranza... 'Tolleranza' è una parola che non mi piace, presuppone l'idea di repressione... BABEL parla invece di compassione, l'ascolto, l'unica maniera per abbattere i confini e le barriere che ci sono fuori e soprattutto dentro ognuno di noi".

Buon contrappunto alla regia è la fotografia di Rodrigo Prieto. Le musiche di Gustavo Santaolalla sono proiettate talora contro il silenzio e il mutismo nelle parti su Tokio, con interessante contrasto tra la parola e la sua assenza; in altri casi la colonna sonora si pone per la sua lentezza e armonia in contrasto con la rapidità o la violenza degli eventi che vanno in scena alle sue spalle, accenutandone così la drammaticità.


[Renato Persòli]