05/05/19

Matteo Maselli, EZIO RAIMONDI: IL VOLTO GENTILE DELL’ERUDIZIONE



[Perspectives (St Vincent's Private Hospital, Dublin, 2019). Foto Rb]



Per uno studente di Italianistica dell’Università di Bologna il nome di Ezio Raimondi risuona come un’eco tra le aule e corre veloce sotto i portici, un filo d’Arianna che conduce ai luoghi del sapere. A poche settimane dal novantacinquesimo anniversario della sua nascita una rilettura dell’eredità umana e culturale del Professore dai modi delicati appare omaggio doveroso di chi si è formato all’ombra del maestro.

Ritenuto da Francesco Muzzioli il più interessante critico di confine italiano[1], Ezio Raimondi ha saputo divellere il conservatorismo dei metodi critici novecenteschi che declamavano con una certa presunzione la scoperta di un approccio ultimo per la decodifica del testo, opponendovi invece una lettura che nella sua eleganza riusciva a inglobare prospettive opposte mostrando che “tout se tient” dinanzi a un oggetto mai banale come l’opera letteraria. La ricchezza del metodo critico di Raimondi, figlia della complessa formazione mai rilegata a una dimensione nazionale ma espansa ai grandi nomi della letteratura mondiale, gli permise riletture inaspettate di questioni da tempo consolidate. Ne è data prova fin dall’ingegnoso Rinascimento inquieto (1965), con il quale Raimondi capovolge, arricchendola, la canonicità armonica e lussureggiante dell’età delle humanae litterae introducendovi il sentore strisciante di un’inquietudine di fondo, tratto oscuro che affiorerà con costanza in tutta la riflessione critica raimondiana.

Lo stato “inquieto et fosco” di Raimondi, replica moderna dei lamenti del Petrarca, trova il suo motivo d’origine nella constatazione che l’interpretazione del testo non potrà mai essere rassicurante poiché conseguendola verrà scardinato un confine immaginario che obbliga a ridiscutere perennemente la parola evocata. Tuttavia, il sospiro inquieto del critico – uno dei più affettuosi tributi a Raimondi è intitolato proprio Ezio Raimondi. Lettore inquieto (2016) – non è mai stato superficiale e, diluito con il fervore del filologo e dello storico, ha posto Raimondi in una reverenziale disposizione nei confronti del testo che veniva così coscientemente indagato. La vitalità della lettura trovava doppia manifestazione nello stile sofisticato di una prosa finemente articolata in digressioni, passaggi laterali e volgimenti conturbanti e nell’eleganza argomentativa, vera ekphrasis dialogica, tanto decantata dai suoi molti studenti. Un’umana e gentile professionalità in cui la cinica e tecnica freddezza di tanti critici suoi contemporanei non trovava affatto ricetto.

La costanza del citazionismo di Raimondi, sospinta fino a un automatismo evocativo, non si è mai posta come improduttiva pratica retorica bensì come testimonianza speculativa del tortuoso procedere del discorso critico in un ammassamento di riferimenti e allusioni nascoste. Nella solitudine dell’ascolto – “ho sempre concepito l’intellettuale come un individuo solitario” confidava Raimondi agli allievi Alberto Bertoni e Giorgio Zanetti[2] – rivolgeva l’orecchio al testo e ne formalizza i sussurri appena udibili. 

La voce di Raimondi riaffiorava così da un’immersione nelle voci dei libri che vibravano in un’ideale biblioteca, totalità plurale e non chiusa in sé stessa, ma vitale e animata dal respiro delle carte che custodiva. In Le voci dei libri (2012) il paternalistico Raimondi svela la profondità sonora del testo nella cui lettura echeggiano le voci del passato che, se accondiscese con piglio risoluto, concorrono a definire gli accenti del futuro. Con metafore libresche Raimondi non ha fatto altro che rivelare le condizioni per il convergere di voci dissonanti verso una possibilità di formazione piena dell’identità dell’uomo che avviene nell’incontro, nel dialogo, nello scambio continuo di esperienze.

Luogo prediletto di formazione rimase sempre la biblioteca, che oggi, dedicata alla sua memoria, continua ad assecondare gli stimoli di ricerca degli studenti della sede bolognese del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica. 

L’archetipo raimondiano della biblioteca asservita al sapere era privo di ordine rigoroso ma lasciato germogliare in un caos benefico che costringeva il lettore ad avventurarsi nella “logosfera” – come amava definire Raimondi le scaffalature ricolme di tomi – per passare in rassegna gli elementi conservati e, nella ripetizione dell’incontro, arricchirli con esperienze di lettura sedimentate nel profondo. Un’universale selva tassiana – l’edizione critica dei Dialoghi del Tasso è probabilmente l’esito migliore del lavoro filologico di Raimondi – collocata in un luogo preciso.

La localizzazione spazio-temporale non era per Raimondi un accessorio di corredo in sede interpretativa. Al contrario, la parola ha sempre avuto una dimora storico-geografica dalla quale dover partire per irradiarsi verso esiti riflessivi coerenti. Una regola ermeneutica che Raimondi seppe applicare anche alla vita accademica che da Bologna lo portò, in qualità di visiting professor, nei più noti cenacoli universitari d’Europa e d’America. Esportò il pensiero manzoniano a Los Angeles (avverso a una visione provvidenzialistica dei Promessi Sposi, in Il romanzo senza idillio del 1974 Raimondi mostra come l’opera di Manzoni sia un disincantato organismo fatto di rapporti di forza e v’introduce inedite riflessioni sull’uso linguistico del lombardo) e a Baltimora negli amichevoli incontri con Singleton riconobbe tra i primi l’ipotesto biblico della Commedia dantesca. In seguito, lo spostamento fisico diverrà addirittura replica del viaggio della parola, del dialogo interminabile che lega opere, autori e lettori. 

L’occhio attento del professore troverà la formula teorica di quest’evidenza linguistica nella “dialogicità letteraria” del Bachtin di Estetica e Romanzo (1975) che Raimondi riuscirà a introdurre negli studi della critica letteraria italiana, dimostrando come l’interrogazione testuale implichi una formalizzazione del già detto rispetto al quale l’opera è una continuazione in divenire. Una configurazione comunicativa oggi non così astrusa per merito di mediatori come Raimondi che hanno saputo esemplificarla ricorrendo a compilazioni esaustive e accessibili che nulla hanno deformato dell’originale scenario teorico. La capacità di desacralizzare l’aura ultimativa e assoluta dei grandi pensatori novecenteschi, da Heidegger a Curtius, e di collocarli in formule funzionali e comprensibili anche ai profani della critica testuale è un merito affatto secondario del Raimondi esegeta[3].

Nell’orizzonte vitale dal dialogo tra le opere, Raimondi rintraccia persino la valenza etica della letteratura, palesatasi nell’atto di convergenza del giudizio estetico e del valore morale che il lettore scopre combinati dopo essersi calato nelle pieghe silenziose del testo e aver constatato l’incompletezza di un’interpretazione meramente letterale. Inoltre, Raimondi insegnava che non vi era vergogna nel mancato apprezzamento di un’opera se in dissonanza con il gusto del lettore: è inverosimile la piena condivisione dei punti di vista di un autore, ma è bene che la totalità degli stessi venga vagliata giudiziosamente per discernere quanto di profondo e autentico la voce dello scrittore ha saputo delineare. Rilevandolo, al lettore acuto sarà concesso di sperimentare in prima persona la polifonia della cultura, oggi semplicisticamente catalogata come “intertestualità” ma che Raimondi intendeva invece come istintivo legame esplorativo non ridotto a innesti osmotici tra testi ma qualificata come processo di trasformazione tangibile dell’habitus del ricevente che partecipa alla trasmissione letteraria. 

Un corollario più tecnico di questa constatazione Raimondi l’espose con chiarezza nel saggio “L’interpretazione come esperimento” (Il senso della letteratura, 2008) dove è riscontrata l’inevitabile imperfezione e parzialità dell’interpretazione letteraria che, in virtù dell’inespresso, corre il rischio di essere incompleta o contraddittoria. Pertanto, la letteratura si rivela attraverso quella che, rielaborando Wittgenstein e Schlegel, Raimondi classificava come ermeneutica del segreto umano fatto di non-detto e d’indicibile. Era proprio l’ineffabilità che per Raimondi costituiva lo sfondo di possibilità dell’esercizio critico: lo studio della letteratura si giustificava esattamente per dare voce a ciò che voce non aveva e che restando ai margini veniva continuamente osteggiato.

Il discrimine tra il grande critico e il millantatore delle parole risiede proprio nella riuscita di questo meccanismo rivelatorio e Raimondi, come pochi altri, ha saputo svelare il suono nascosto delle parole autoriali musicando dialoghi testuali prima di lui rivolti ad ascoltatori sordi.


[1] F. Muzzioli, Le teorie della critica letteraria, Roma, Carocci, 2012, p. 201.
[2] Cfr. E. Raimondi, Camminare nel tempo, Bologna, il Mulino, 2015, pp. 205.
[3] Cfr. E. Raimondi, Le metamorfosi della parola: da Dante a Montale, Milano, 
Mondadori, 2004, pp. 246.