07/12/18

Cristina Cona, IL CORONER È ARRIVATO SUBITO



["An express in Milan..." (Stazione Centrale 2018). Foto Rb]

Ho pensato recentemente che se i prestiti linguistici cui fa ricorso la lingua italiana venissero conteggiati, alla stregua di altri prestiti, nel nostro debito pubblico, il paese sarebbe già da un pezzo sprofondato nella più nera bancarotta. Forse sarebbe anche qui il caso di procedere a tagli e manovre correttive. Non che altri paesi non conoscano il problema, anzi. I francesi ad esempio, nonostante l’autorevolezza dell’Académie Française, producono a getto continuo trovate del tipo “c’est très cosy”, “pas vraiment safe”, o il novello verbo “squatter”, e chi più ne ha più ne metta. Da noi però al delirio si è arrivati prima degli altri, e su questa strada siamo, mi pare, molto più avanti degli altri.

Come è già stato notato da più parti, l’insicurezza e il provincialismo (nonché, aggiungeremmo, la pigrizia mentale) risultano determinanti nello spingere all’uso di termini stranieri quando per esprimere un concetto è possibile utilizzare (e, in molti casi, viene da sempre utilizzata) una parola italiana perfettamente adeguata. Mi sembra anzi penosamente ovvio che fra  il ricorso ai prestiti linguistici superflui e la conoscenza effettiva della lingua alla quale appartengono esiste  un rapporto di inversa proporzionalità. Nel corso degli anni ho potuto ad esempio constatare come i quotidiani che spesso e volentieri infiorano la loro prosa di termini “inglesi” (le virgolette mi sembrano d’obbligo) vantino corrispondenti dall’estero il cui inglese non di rado lascia un bel po’ a desiderare (stenderei anche un pietoso velo sul loro italiano, ma è un discorso che mi porterebbe ben al di là dello spazio disponibile).

Esistono certo vari tipi di anglicismi (dico “anglicismi” anziché “forestierismi” perché la maggior parte dei prestiti oggi in uso proviene dalla lingua inglese). Vi sono gli anglicismi adoperati correttamente e che hanno una ragion d’essere perché rientrano in un lessico settoriale o professionale connotato culturalmente ad un punto tale che cercare d’imporre un termine italiano corrispondente sarebbe, perlomeno a questo punto, una battaglia perduta in partenza (penso a settori come l’economia o l’informatica) ; vi sono poi gli anglicismi superflui ma perlomeno “giusti”, nel senso di essere usati nel loro corretto significato ; vi sono poi, ahimé, i numerosi anglicismi  “sbagliati”, senza contare i numerosi calchi non solo scorretti, ma molto spesso, anch’essi, più che superflui.

Gli anglicismi che potremmo definire “giusti ma superflui” sono quelli che (a) non sono espressioni inventate o frutto di un errore grammaticale e (b) effettivamente indicano lo stesso concetto in italiano e in inglese. Che poi sia il caso di usarli è un altro discorso. Un esempio classico è rappresentato dall’abitudine, ormai radicata in certa stampa italiana, di designare i senzatetto con il termine homeless. Nessuno, che io sappia, ha mai spiegato che cos’abbia la parola senzatetto da essere ritenuta sconveniente e/o incolta e/o inadeguata. Poi abbiamo le news al posto delle notizie, abbiamo i famosi days (Election Day, Gay Pride Day, addirittura il Crime Day  - quello, uno s’immagina, in cui tutti vanno a rubare: o no?). Senza contare le occasioni di incontro e di dibattito, che ormai sembra vietato designare in italiano: ogni estate, negli ultimi anni, abbiamo avuto il Meeting di Rimini, la Magna Carta Summer School a Frascati e il Workshop Ambrosetti a Cernobbio. E che dire di un Presidente del Consiglio, concittadino di Dante, che ci ha regalato una legge sull’occupazione denominata giobbesácchete?

Poi c’è il famoso stalking (pronunciato per giunta arricchendo di bella sonorità italica la L e la G: stoLLkinG). I comportamenti cui si fa riferimento sono, purtroppo, sempre esistiti, e la parola “persecuzione” li aveva finora designati più che adeguatamente. E non solo in italiano: un bel fado di Amália Rodrigues s’intitola per l’appunto Perseguiçao. Chissà se adesso sarà stato ribattezzato Estálquim.

Senza contare le innumerevoli solutions, i vari centri benessere definiti  oasi del wellness, la zona eating delle cucine, gli acquisti fatti all’outlet, le illustrazioni pubblicate courtesy dell’artista… basta sfogliare un quotidiano (a volte, ahimé, anche un libro) per raccogliere decine di esempi ogni giorno. Il pettegolezzo è sparito per far posto al gossip, e perfino critici letterari per i quali la lingua italiana dovrebbe essere… come dire ? qualcosa di più di un optional parlano, chissà perché, di plot quando fino a qualche anno fa avrebbero usato senza remore la parola “trama”.  Il titolo di un recente articolo della Stampa chiede: “Sai parlare con il tuo hairstylist ?” Forse è il caso di chiamarlo, banalmente, “parrucchiere”: se capisce quello che dici perché parlate tutti e due italiano, chissà che non vi riesca di instaurare qualcosa che assomigli ad un dialogo.

Nello stupidario possiamo inserire anche un capitolo dedicato allo spagnolo: adesso anche nel centro di Torino non si parla che di movida. Sì, “movida”, e per colmo d’ironia proprio nella città i cui abitanti sono tradizionalmente accusati di essere dei bogianen… Solo che ad usare un termine alternativo come “ciucca”, o sbornia che dir si voglia, ci si farebbe non solo bollare come volgari sprovveduti, ma anche, e soprattutto, si metterebbe a nudo la vera ragion d’essere di tutto questo “sofisticato” viavai notturno: non sia mai detto! Il termine straniero, fra l’altro, serve non di rado anche a questo: utilizzando termini il cui significato non tutti comprendono, e che quindi restano un po’ nel vago, è possibile far apparire interessanti le esperienze più banali, oppure designare anodinamente realtà spiacevoli o che si preferisce non chiamare con il loro nome per non far figura di irriducibili Catoni. Pensiamo, per esempio, a quegli insulsi imbrattatori di muri, monumenti, sottopassaggi e altri beni pubblici, del tutto privi di qualsiasi creatività ed originalità (i loro “capolavori” si ritrovano assolutamente identici in forma e colori da Padova a Parigi, da Barcellona a Birmingham), che si è ormai soliti definire writers: termine che, in quest’accezione, appartiene all’inglese dello slang urbano ma che viene riprodotto tale e quale da cronisti nostrani affetti da una sorta di patetico giovanilismo e vogliosi di sentirsi al passo con i tempi. Osserviamo tra parentesi che questi stessi  “artisti” vengono definiti,con ben maggiore realismo, dalla BBC  “graffiti vandals”.

Se però nel caso degli anglicismi “giusti” si può almeno dire che i termini e le espressioni in questione esistono e vengono usati (più o meno) nel significato che è loro proprio, quelli sbagliati o sono inventati di sana pianta, tanto che un anglofono spesso non capirebbe neppure che cosa vogliono dire, o vengono usati in un’accezione che non è quella della lingua originaria, oppure costituiscono veri e propri errori grammaticali. Prendiamo l’uso ormai straripante del “no” seguito dal sostantivo: in certi casi significa opposizione (no global, no TAV), e qui si potrebbe dire con altrettanta efficacia (nonché, spesso, esattezza grammaticale) in italiano, “no a”; in altri casi viene usato a sproposito per dire semplicemente che certe cose o persone non sono gradite (abbiamo così il perentorio “no perditempo” in certi piccoli annunci) oppure non rientrano in certe categorie (in una grande libreria di Torino ho notato uno scaffale di saggistica in inglese recante la dicitura “no fiction”, mentre chiunque abbia mai frequentato le librerie anglofone - quelle vere - sa che l’espressione giusta è “non-fiction”). Anni fa sulla Stampa era apparso un annuncio di ricerca di una babysitter che si concludeva con l’indimenticabile ingiunzione “no inflessioni dialettiche”. Chiaramente i genitori del bambino erano degli autentici puristi che non tolleravano alcuna contaminazione linguistica.

Di solito però ci si limita a combinare grandi pasticci sul piano terminologico. Che cosa mai indicherà l’insegna “The Mix Shop”? E che cosa significava, anni fa, quell’altra insegna, “Every Young”, su un negozio di abbigliamento? Questo lo so, essendoci arrivata con la retrotraduzione: “Tutto Giovane”. Stesso procedimento per interpretare “History Coffee”: sì, i tapini volevano dire “Caffé Storico” … E che dire dei vari “sexy scandalo”,“ sexy shop”, “sexy symbol”? E’ vero che la lingua di un italofono tende ad attorcigliarsi non poco intorno alla pronuncia, in particolare, di “sex shop”, però anche così non mi sembra il caso di “make the chickens laugh”.

Un altro strafalcione, di cui mi sembra si rendano colpevoli soprattutto i negozi di abbigliamento maschile (specie del genere “all’inglese”), consiste nel fregiarsi di un appellativo contenente il titolo “Sir” seguito da un cognome. Ora, in inglese “sir” può essere accompagnato o dal nome e cognome, oppure soltanto dal nome, ma mai dal solo cognome. Si può dire “Sir Alec Ferguson” o anche, più familiarmente, “Sir Alec”, ma mai “Sir Ferguson”. E invece… invece i nostri poliglotti della moda uomo adorano appiccicare sul proprio negozio insegne con “Sir Wilson”, “Sir Drake”… Fa tanto fine, no?

Ormai siamo così abituati all’uso costante dell’inglese, vero o fasullo, in televisione, sulla stampa e su Internet, che spesso e volentieri ci limitiamo a registrare mentalmente l’esistenza di certe parole senza essere sicuri di ciò che significano, avendo al massimo un’idea nebulosa del contesto in cui vengono utilizzate. Ricordo un fatto di cronaca nera di cui si era parlato al telegiornale: un giovanotto a Milano era stato inseguito fin sotto un portone e lì accoltellato. La custode del palazzo, intervistata, raccontava di aver assistito ai fatti e terminava la sua testimonianza con le parole “Per fortuna il coroner è arrivato subito”. Chi fosse questo “coroner” è lasciato all’immaginazione di chi ascolta: probabilmente la polizia, o magari l’ambulanza…

E per fortuna la signora non ha aggiunto: “Sembrava di assistere ad una fiction”. “Fiction” (pronunciato invariabilmente “fiik-scionn”, se non addirittura “fiikke-scionn”, o nei casi più gravi “fiikke-scionne”) è un altro termine entrato in uso con un significato improprio (in inglese significa (1) narrativa, (2) invenzione, finzione, fantasia - l’opposto cioè di  “fact”; si può parlare di “TV fiction”, ma in quanto categoria di spettacolo, e non per designare un singolo programma) e che deve essere scaturito in ambito RAI  o Mediaset dalla testa di un annunciatore (scusate, “speaker”: altro vocabolo che in inglese significa tutt’altra cosa; in Gran Bretagna si dice, a seconda dei casi, “newsreader”, “announcer” o “presenter”,  mentre negli Stati Uniti si utilizza a seconda dei casi anchorman”, “anchorwoman”, a volte “anchorperson”) più fantasioso che informato, al quale premeva di farsi bello davanti ai suoi capi. O magari di fare più audience… Fino agli anni Ottanta, per designare questo tipo di spettacolo si era soliti ricorrere a termini italiani: sceneggiato televisivo, romanzo sceneggiato, originale televisivo.

E poi c’è il ben noto “footing”: se almeno i prestiti linguistici si facessero direttamente dalla lingua cui appartiene il termine… ma no. Stavolta abbiamo preso dal francese un vocabolo “inglese” che i francesi (e non è la prima volta) si sono creati di fantasia (sulla base del verbo “to foot”, che significa tra l’altro “camminare”, ma viene usato raramente in questa accezione) ; in inglese si dice “jogging”. Forse il coroner è arrivato così in fretta, tutto bello e scattante, perché in forma fisica eccezionale da quando pratica regolarmente il footing.


NOTA

L’articolo è tratto da due contributi apparsi su comunicarepensieri.blogspot.com il 9 ottobre e 6 novembre 2011.