Tra le manifestazioni di un esotismo su temi asiatici, di
stampo positivo, ovvero rivolto all’Asia con interesse per culture e costumi,
si annoverano parecchie opere occidentali, caratterizzate da visioni molteplici
del continente confinante con l’Europa. La Cina ne è protagonista o punto
d’arrivo. Qui si citano tre romanzi di autori che si sono rivolti all’Asia
senza averla visitata e hanno scritto narrativa di avventure: Le tribolazioni di un
cinese in Cina, di Jules Verne (1879 [1]); La scimitarra di Khien
Lung (la cui datazione è incerta [2]), di Emilio Salgari; e Gli asiatici, di
Frederic Prokosch (1935 [3]).
In questa nota breve ci preme solo notare come le
descrizioni accurate di momenti di vita e storia orientali non siano indicative
di un rapporto diretto con l’Asia, bensì costituiscano una modalità di
autenticazione dei luoghi e della cultura locale.
Marion Decome individua le fonti di Verne, che egli lesse
“pour donner un poids scientifique à son texte” e fu viaggiatore
non reale, ma soltanto letterario, dell’Asia. Si veda questo articolo utile e articolato
per nomi e fatti circostanziati. Decome spiega che Verne scelse la Cina perché
questo paese consentiva un “décor à la fois peu connu du public, archaïque,
tour à tour fascinant et dangereux, et suffisamment grandiose pour y insérer
des scènes qui se déroulent en mer, sur la terre, dans des villes immenses, des
villages, des déserts, ou encore sur la Grande Muraille”. Nonostante alcuni
errori, i dettagli descrittivi sono per lo più corretti. L’impostazione è di
empatia con i personaggi cinesi, nondimeno c’è anche una concezione positivista
che assegna superiorità alla tecnologia occidentale rispetto a quella asiatica
del tempo.
Salgari, anch’egli non recatosi in Cina, parte da una scommessa simile a quella verniana del Giro del mondo in ottanta giorni.
L’italiano Robiano e l’inglese James scommettono col francese Orville che
riusciranno a trovare la scimitarra mitica e preziosa di Khien Lung, dalla lama
d’oro; e dopo avventure mirabolanti, coadiuvati dall’indocinese Kwang e dal
cinese Lin Fu, in una Cina selvatica e pericolosa, sconfitti rivali e banditi,
riescono all’ultimo momento, pochi minuti prima dello scadere della scommessa,
a portare l’arma al luogo convenuto, un locale di Canton denominato “Il Drago
Nero”.
La Cina di Salgari non manca di descrizioni autenticanti;
un solo esempio, a Canton: “la fitta rete di imbarcazioni che dondolavano a
migliaia, come in un intricato vespaio, sulle acque del golfo e sulla complessa
rete di canali che attraversano le zone più abitate della grande città cinese”
(p. 3). Da un lato, Salgari insiste su particolari realistici, come in un
resoconto di viaggio, si veda “quel diluvio di parole, […] quella cateratta di
complimenti che fanno parte del bagaglio integrante dei mercanti cinesi” (p.
3). Dall’altro lato, non disdegna di cedere all’esotismo con tigri, serpi e
altri animali selvaggi; o dettagli orientalisti più che orientali, come “una
danzatrice malese […] accompagnata da una melodica musica suonata da due
fanciulli che traevano gli accordi da vecchi liuti; […] bellissima donna che si
muoveva avvolta in un sottile velo nero” (p. 4).
L’Asia di Prokosch, il terzo autore qui citato che scrive
sull’Asia senza esserci andato di persona, è teatro di imprese picaresche e di
avventure erotico-sentimentali attuate a volte e a volte osservate dal
narratore in prima persona che si imbatte in occidentali che viaggiano per
l’Asia e in persone dell’Asia di varia provenienza sociale.
In Prokosch, l’Asia è un mondo di risonanze emotive:
“Avevo sempre desiderato di visitare l’Asia. Il semplice suono della parola mi
faceva accelerare i battiti del cuore” (p. 5). La comunicazione con “gli
asiatici” è imperniata sul mistero: “È assolutamente impossibile penetrare
nella loro intimità, e sarebbe sciocco sperare ch’essi siano capaci di
penetrare nella nostra” (p. 179). Tra gli occidentali c’è chi cerca in Asia
l’avventura, chi la fortuna, chi “un narcotico a suoi nervi” (p. 241).
A parte questi esotismi orientalisti, il rapporto di
Prokosch verso l’Asia è di universalismo pessimista: “Che c’entrano l’oriente o
l’occidente! […] È l’uomo che è marcio, qualunque ne siano il colore o la
razza” (p. 266).
Il viaggio degli Asiatici inizia a
Beirut e termina in Cina. La Cina è qui un punto di arrivo rasserenante negli
ultimi due capoversi di descrizione autenticante del romanzo:
“Arrivai ad una casetta rustica tutta rivestita di piante
rampicanti, e circondata da un orto i cui filari tradivano l’incomparabile accuratezza
dei metodi di coltivazione cinese. Il padrone di casa, cinese, appunto,
riposava all’ombra di un fico giuocando coi suoi due marmocchi; lì presso la
moglie lavava panni in un tino.
Vedendomi l’ortolano sorrise amichevolmente, mi fece un
cenno d’invito e mi domandò in inglese se mi ero smarrito. I marmocchi mi
corsero incontro, con attucci simili a quelli di due cagnolini festosi. L’uno
mi prese per mano. La mamma rideva amorevolmente. Mi sedetti a terra, in gruppo
con loro, in seno alla famigliola. Ero felice” (p. 307).
[Roberto Bertoni]
[1] Traduzione italiana Le tribolazioni di un
cinese in Cina, Milano, Rizzoli (BUR), 1964.
[2] L’edizione da noi usata è quella dell’Editrice Pagani
Milano, ma non è ivi riportata la data di pubblicazione che, stando a una nota editoriale su Amazon.com, potrebbe essere il 1947.
Quanta alla data di composizione, questo romanzo va messo in relazione con un
altro, simile, di Salgari, intitolato La scimitarra di Budda,
del 1892. Non abbiamo chiaro perché un articolo del 2015 parla, a proposito
della Scimitarra di
Khien Lung, di “giallo del romanzo perduto”, di cui esisterebbero solo tre
pagine di appunti,
mentre chi scrive queste note possiede la copia citata dell’intero romanzo,
dell’editore Pagani; e comunque nel catalogo della Biblioteca Nazionale di
Firenze è contenuta una copia pubblicata nel 1959 nelle edizioni
Carroccio-Aldebaran.
[3] Traduzione italiana Gli asiatici, Milano, Bompiani, 1937.