17/03/16

Annachiara Cozzi, 1816-2016: FANTASIE VAMPIRESCHE DAL “POVERO POLIDORI” A OGGI

[Stoker's Land (Ireland 2016). Foto Rb]



La fantasia umana più intima è direttamente collegata alla paura umana più intima: la morte. Cosa c’è di più umano che avere paura delle morte? La consapevolezza che, inevitabilmente, a un certo punto tutti dovremo smettere di esistere getta da sempre un’ombra sulla mente dell’uomo. Il nostro desiderio di infinto non lo accetta. L’amore, letterariamente considerato antitesi della morte in quanto forza vitale per eccellenza, non può comunque risparmiare l’uomo dal suo destino: tutto finisce con la morte. “Amatevi come compagni di viaggio, con questo pensiero d’avere a lasciarvi […]” [1]: il Manzoni non risparmia i suoi Promessi Sposi da questa amara consapevolezza, e tramite le parole di Padre Cristoforo pone sulla felicità ancora in bocciolo dei due la triste realtà dei fatti. Del resto, la rappresentazione metaforica della vita come un viaggio destinato a finire “in un gran dolore” [2] è uno dei topoi più comuni della letteratura. E se è vero che la letteratura riflette la vita, questo la dice lunga sull’uomo e le sue ossessioni.

Il discorso di Padre Cristoforo, rivolto a due innamorati prossimi al matrimonio, non è certo incoraggiante: bel modo di iniziare una relazione pensando alla sua inevitabile fine. Sorvolando sulla seconda parte del discorso del frate – ci condurrebbe ad un campo troppo complesso – che fa riferimento alla fede cristiana in una vita dopo la morte, io credo che questo pezzo del Manzoni racchiuda in sé un pensiero che più intimamente umano non si può: quello della morte che incombe anche sulle cose più belle. La morte annulla tutto e non c’è niente che si possa fare. Niente, a parte immaginare. Da qui la fantasia più profonda degli uomini: sconfiggere non solo la paura della morte – le religioni ci provano da secoli – ma la morte stessa, diventare immuni alla morte.

Questo spiega l’immensa popolarità della fantasia vampiresca: i vampiri sono immortali. La letteratura popolare vampiresca ha radici antiche, e va fatta risalire alla notte dei tempi: leggende sui ‘non morti’ si possono trovare, seppur in varianti consistenti, in innumerevoli culture.

Non è inoltre un caso che negli ultimi decenni la letteratura vampiresca sia più in voga che mai: nelle nostre frenetiche giornate il pensiero della morte ci terrorizza, viene tenuto a distanza, è sdegnosamente scatonato. La perdita generale della religione e della spiritualità nella società contemporanea ha creato ansia sulla morte come non mai: era in certo senso rassicurante avere l’inferno o il paradiso ad attenderci. Almeno sapevamo cosa aspettarci. Ora non abbiamo altro che incertezze. Il non sapere è tremendo, il senso di vuoto insopportabile. Il successo della fantasia vampiresca ne è la diretta conseguenza.
Un secondo aspetto che ha contribuito alla fortuna del vampiro è a mio avviso il richiamo sessuale che esercita. In una società dove l’immagine, la bellezza, la giovinezza e il sex appeal sono tutto, come poteva non regnare la figura del fascinoso vampiro? A questo punto è però necessario interromperci per puntualizzare che quest’ultima caratteristica vampiresca non è radicata nelle tradizioni popolari – in cui i ‘non morti’ sono esseri sporchi e ripugnanti – ma è di origine relativamente recente: precisamente, va fatta risalire a 200 anni fa. Il momento: estate 1816. Il luogo: Villa Diodati, nei pressi di Ginevra. Lord Byron, in volontario esilio dall’Inghilterra, raduna un singolare gruppetto di amici, tra cui: Jane ‘Claire’ Clairmont, giovane amante del poeta, incinta di una figlia; Percy Bysshe Shelley, la relativa innamorata Mary Gordwin (la futura Mary Shelley) e il loro bambino William. Ma in quella casa, in mezzo a scrittori e a poeti, c’è anche un giovane di cui a stento oggi ci si ricorda il nome: John William Polidori, compagno di viaggio e medico personale di Byron. Confinati in casa dal tempo inclemente – celebri le parole di Mary Shelley, “it proved a wet, ungenial summer, and incessant rain often confined us for days to the house[3] – la comitiva si intrattiene leggendo storie di fantasmi. La proposta di Byron “we will each write a ghost story [4] si rivelerà cruciale per la letteratura gotica. Due capolavori hanno infatti origine da questa scommessa tra amici: Frankenstein della diciottenne Mary e The Vampyre di Polidori [5]. Ma mentre il primo porta all’autrice notorietà ininterrotta sin dal momento della pubblicazione, The Vampyre gode di uno straordinario successo alla sua uscita (anche perché erroneamente – e convenientemente – attribuito a Byron), ma ai giorni nostri il nome John Polidori non suscita molte reazioni. Anche fra i suoi contemporanei, comunque, “il povero Polidori” – sempre citando Mary Shelley [6] – non era certo una celebrità. Il racconto lancia la gloriosa carriera dei vampiri, ma il suo autore rimane nell’ombra. Deluso dalla vita e indebitato fino al collo, si suicida ad appena ventisei anni. Eppure lettori, romanzieri e autori telesitivi e cinematografici devono molto a Polidori: il giovane medico stabilisce infatti il canone del vampiro così come tutti noi lo conosciamo. La storia risulta oggigiorno un po’ trita, ma proprio perché è stata modello di tutta successiva narrativa vampiresca.  

Polidori introduce tre aspetti che distinguono il vampiro moderno da quello delle leggende popolari, e che rimangono più o meno invariati in tutte le storie a seguire.  

Innanzitutto, l’attrattiva fisica: il protagonista di Polidori, Lord Ruthven, è un uomo virile, dotato di un fascino cupo a cui le sue vittime non riescono a sottrarsi. I melanconici occhi grigi e il marmoreo pallore attraggono l’attenzione di coloro che incrociano la sua strada.

Secondo, il lignaggio aristocratico: d’ora in poi il vampiro non sarà più un contadino che dalla tomba fa incursioni nei villaggi terrorizzando villici. Il vampiro è ora un nobiluomo, dotato di risorse finanziarie, servitori e lussuose dimore.

Terzo, il vampiro si muove disinvolto tra i salotti della buona società: perfettamente inserito a livello sociale, Lord Ruthven è elegante, ben vestito, ha modi raffinati ed è un brillante conversatore. Tutt’altra cosa che il maleodorante, solitario mostro notturno delle storie tradizionali. Tali caratteristiche sono chiare e definite fin nella prima pagina del racconto.

La trama è breve e lineare, e il narratore extradiegetico filtra il racconto attraverso la prospettiva di Aubrey, giovane gentiluomo inglese, intriso di ideali tanto onorevoli quanto poco realistici. Aubrey conosce il misterioso Lord Ruthven in uno dei tanti salotti londinesi frequentati da quest’ultimo, ne rimane affascinato e decide di parire per il suo grand tour insieme a lui. Non passa molto tempo però prima che Aubrey si renda conto che l’uomo che l’accompagna ha qualcosa di sinistro e perverso, e a Roma le strade dei due si separano. Il ragazzo si reca in Grecia, dove si innamora di una fanciulla pura e semplice, Ianthe. L’idillio tra i due giovani è ben presto interrotto dalla morte di lei, uccisa in circostanze oscure. Sconvolto, Aubrey cade malato. A questo punto ricompare Lord Ruthven, con cui il ragazzo si rimette in viaggio pur nutrendo dei sospetti sulla sua natura. Durante un attacco di briganti, Ruthven viene ferito e ucciso. Prima di spirare fa giurare ad Aubrey di non fare parola con nessuno della sua morte per un anno e un giorno. Il giovane rimane scioccato quando, una volta tornato in Inghilterra, rivede il suo compagno di viaggio conversare affabilmente ai ricevimenti. I sospetti di Aubrey si fanno sempre più concreti ed allarmanti, ma il ragazzo è vincolato al silenzio dalla promessa fatta. La frustrazione lo porta ad estraniarsi dal mondo circostante per mesi. Considerato ormai un folle, Aubrey viene messo a conoscenza del matrimonio dell’amata sorella con Lord Ruthven solo il giorno prima delle nozze, che corrisponde allo scadere dell’anno e un giorno. Allo scoccare della mezzanotte, finalmente non più costretto a tacere, il giovane racconta tutto ai suoi tutori, e muore immediatamente dopo. Ma ormai è troppo tardi: il vampiro è scomparso e la sorella viene trovata morta.

Il racconto si conclude con la vittoria assoluta del vampiro, che continua a vagabondare indisturbato seducendo e uccidendo giovani donne. La carica sessuale di Lord Ruthven è strettamente connessa col suo essere aristocratico: nell’immaginario della sobria middle class inglese esisteva uno stretto legame tra sessualità e aristocratici, considerati lascivi e indulgenti verso i propri appettiti sessuali. Inoltre, il potere sessuale che il vampiro esercita sulle sue vittime è correlato al potere sociale che l’aristocrazia ancora deteneva. Il vampiro è la rappresentazione di una classe sociale che al tempo stesso suscitava ripugnanza e attrazione negli animi borghesi. Egli è morto ma tuttavia non lo è, così come il potere dell’aristocrazia all’inizio del diciannovesimo secolo era e non era morto. L’associazione di vampiri e aristocratici col sangue è un ulteriore aspetto in comune: il sangue è la prima cosa a cui si pensa quando si menziona la figura del vampiro, e il sangue è ciò che rende tali gli aristocratici, è ciò li distingue dall’ ‘uomo comune’.

Il vampiro di Polidori è quindi fortemente antiborghese. Egli è totalmente al di fuori delle regole morali e sociali in cui si riconosceva la middle class. Eppure la letteratura vampiresca godette di straordinaria popolarità proprio in questa middle class. La spiegazione è intuitiva, e a mio parere vale anche per il mondo contemporaneo: il vampiro, che vive per soddisfare le proprie pulsioni, incarna quella liberazione sessuale, quella trasgressione che il bravo cittadino non può o non ha il coraggio di concedersi. Il vampiro trasgredisce le regole sociali e morali, ma lo fa con la collaborazione delle sue vittime: all’interno del racconto di Polidori, e di ogni storia di vampiri moderna, le vittime sono in certo senso consenzienti alla propria rovina. Ruthven esercita un’attrazione ipnotica che le vittime riconoscono come demoniaca ma a cui non si sottraggono. Egli agisce come catalizzatore delle pulsioni represse affinchè vengano alla luce. Coloro che sono portati alla rovina dalle sue attenzioni sono in realtà vittime della propria debolezza interna. Lo stesso Aubrey quando incontra per la prima volta Lord Ruthven “determined to observe the offspring of his fancy, rather than the person before him [7]. Il vampiro non deve faticare per sedurre le sue vittime, che sono naturalmente attratte dai suoi “irresistible powers of seduction[8] e dalla sua “winning tongue[9]. Del resto, l’elemento sempre implicito ma onnipresente del racconto è il sesso. L’atto vampiresco del succhiare il sangue non è una parte fondante della storia e non è mai esplicitato se non in due momenti (l’uccisione di Ianthe e di Miss Aubrey). Il vampiro di Polidori è essenzialmente il classico rake – libertino – di inizio Ottocento, con alcuni attributi vampireschi aggiunti a puntino. Per Ruthven il vampirismo è una mera continuazione del libertinaggio: dedito a tutti i “fashionable vices[10] della sua classe sociale, egli gira per le capitali europee dilapidando grandi somme di denaro, scommette, gioca a carte, porta alla rovina giovani donne, le quali misteriosamente spariscono. La storia scarseggia di tutto quell’equipaggiamento tradizionale vampiresco, dalla bara alla paura dei crocifissi, perché in fondo sarebbero state aggiunte non necessarie; la funzione essenziale del vampiro di Polidori è infatti quella del dongiovanni sempre ‘a caccia’, in questo caso letteralmente, di vittime. Non è un caso che l’espressione lady-killer per indicare un donnaiolo stesse prendendo piede proprio nel periodo in cui Polidori stava scrivendo il racconto. La figura di Lord Ruthven è ricalcata su quella del famigerato Lord Byron – i punti di contatto tra i due sono evidenti – cosa che senza dubbio contribuì alla fama dell’opera. Ma se Lord Ruthven è Byron, allora Aubrey è Polidori: un giovane ingenuo che si mette in viaggio per l’Europa con un aristocratico famigerato e senza scrupoli; come nel racconto, il rapporto tra i due è breve e burrascoso. Alla fine dell’estate, Lord Byron licenzierà il povero Polidori.

Una storia nata per una scommessa, scritta da un ventunenne destinato a morire suicida pochi anni dopo, pubblicata senza il consenso dell’autore e attribuita alla persona sbagliata, The Vampyre è stato, e continua ad essere, fertile humus per la narrativa dell’orrore dei duecento anni successivi alla sua genesi.


[1] A. Manzoni, I Promessi Sposi (1840), cap. XXXVI.
[2] Ibidem.
[3] M. Shelley, Frankenstein: or The Modern Prometheus (1818), prefazione all’edizione del 1831. L’edizione qui utilizzata è a cura di M.K. Joseph, Oxford, Oxford University Press, 2008.
[4] Ivi.
[5] W. Polidori, The Vampyre; A Tale, pubblicato per la prima volta sul New Monthly Magazine nell’aprile del 1819 come “a tale by Lord Byron”. L’edizione qui utilizzata è a cura di R. Morrison e C. Baldick, Oxford, Oxford University Press, 2008.
[6] Nella prefazione a Frankenstein, Mary Shelley accena solo brevemente alla presenza del medico riferendosi a lui come “poor Polidori”.
[7] The Vampyre, p. 5.
[8] Ivi, p. 7.
[9] Ivi, p. 4.
[10] Ivi, p. 6.