09/05/15

Yu Hua, LE SEPTIÈME JOUR


Edizione cinese 2013. Traduzione francese di A. Pino e I. Rabut: Parigi, Actes Sud, 2014


Un’anti-creazione, rispetto al titolo e alla citazione biblica, tratta dalla Genesi, dato che il protagonista e narratore in prima persona narra la storia dei sette giorni a partire dalla propria morte, dovuta a un’esplosione di gas in un ristorante, fino al punto d’avvio verso l’incenerimento che distruggerà ogni traccia dell’esistenza terrena.

In parte secondo la tradizione Buddhista dell’Asia Orientale, in “ce silence qui s’appelle la mort”, l’anima vaga; in parte seguendo storie classiche di fantasmi cinesi e un assunto narrativo surrealista (“comme dans un rȇve”), stenta a riconoscersi appieno, si muove nel paradosso del corpo che crede di avere ma che è invisibile a chiunque altro; e, pur nel disorientamento cognitivo (“une mémoire coupée du monde, faite de fragments disparates, à la fois vide et réelle”), s’incontra con altri personaggi della sua cerchia, deceduti di recente, e ricorda i fatti più importanti della vita propria e di altri, riferendo così di una Cina caratterizzata da alti livelli di disuguaglianza sociale, di povertà economica, di prepotenze, discordie, gelosie. La moglie l’ha lasciato per avviare una relazione che favorisse la propria carriera; un innamorato si vende un rene per pagare la tomba alla fidanzata; ventisette bambini deceduti vengono lasciati galleggiare sul fiume; e anche nell’aldilà, in attesa di farsi incenerire, ci sono defunti privilegiati e proletari.

L’alleggerimento compensativo è dato dalla fibra morale del padre adottivo, che è vissuto di abnegazione per il figlio raccolto sui binari di un treno in circostanze eccezionali; e da una certa fiducia nell’amore di coppia, che può riscattare.

Prima di giungere, infine, al punto in cui, dissolta traccia anche del fantasma residuo, “il n’y a ni chagrin ni doleur, il n’y a ni rancune ni haine... [...] tous sont égaux dans la mort”.


[Roberto Bertoni]