01/04/15

Goffredo Parise, CARA CINA





[Paris Chinatown (Belleville 2014). Foto Rb]



Goffredo Parise, Cara Cina. Prima edizione 1966. Torino, Einaudi, 1972


Il reportage di Parise cerca di evitare l’esotismo, cedendovi solo a tratti e con simpatia umana per la realtà esaminata; in particolare nelle notazioni sulla bellezza muliebre, ove compare l’ineffabile, aspetto del mistero che è una delle chiave di volta dell’orientalismo, ma al contempo si manifestano il rispetto e l’ammirazione:

“Ho visto decine e decine di donne cinesi, dalle più umili facchine che tiravano il carretto fino alle intellettuali che occupano posti di grande rilievo. Alcune erano belle: di uno stile così alto, così naturale, così antico e ineffabile […]. La donna cinese […] è diversissima dalla donna occidentale e, bella o brutta, è quasi sempre bella. Questa bellezza è data […] dallo stile” (p. 122).

Un altro tipo di generalizzazione orientalistica, basata questa sull’osservazione di moduli non comprovati culturalmente, è una supposta tendenza cinese alla ripetizione (“i cinesi amano […] ripetersi e non conoscono la noia”, p. 45) e l’assenza di “espressione individuale” di cui i cinesi “non […] hanno mai sofferto” (p. 26), più volte reiterate nel testo e contraddette, tra parentesi, specie la seconda, dalle interviste condotte con intellettuali nelle ultime pagine. Piuttosto insolita anche l’idea che “i cinesi non sono mai stati un popolo religioso” (p. 23), su cui ci sarebbe abbastanza da dire pensando al Buddhismo, per esempio, al Taoismo, alla funzione non solo civile del Confucianesimo.

Per il resto, tuttavia, la fattualità, una relativa modestia del non affermare di sapere tutto sulla Cina e un approccio non visceralmente avverso alla realtà esaminata caratterizzano questi articoli scritti inizialmente per il Corriere della Sera.

Se non si può dar torto all’irritazione per una messa in scena di una storia patetica affidata a un’attrice al fine di impietosire l’osservatore straniero e spingerlo a simpatizzare con la Cina maoista, ma sfortunatamente la stessa storia raccontata a un altro giornalista da un’altra persona, dunque presumibilmente falsa, è vero che Parise dà per scontato, senza ingigantirlo a fini propagandistici, l’apparato propagandistico e riesce a leggere tra le righe più di una volta.

Osserva, per esempio, la timidezza dei cinesi di quel tempo, l’ospitalità, la collaborazione altruista.

Frattanto chiede alla persona incontrata casualmente, come pure a individui dotati di responsabilità politiche e civili, delle loro persuasioni ideologiche e verifica adesione al marxismo, quindi nelle versioni che gli vengono proposte da coloro con cui parla si profila una concezione di politica al primo posto che era corrente nelle ideologie di quegli anni nella Repubblica Popolare. Talora questa concezione del mondo si esprime con semplicità, talaltra con fanatismo (parola menzionata a p. 104).

Nota da un lato le gigantografie della propaganda nei manifesti (“i cartelloni li vogliono […] alti, nerboruti, bronzei, con la mascella quadrata”); dall’altra “hanno l’aspetto di un popolo mite e segnato da grandi dolori, portato alla difesa, all’unità, alla chiusura, alla diffidenza contadina, alla superbia etnica: in una parola un popolo centripeto e non centrifugo” (p. 54).

Anche Parise, come abbiamo già notato per Moravia (ma è un concetto eccentrico, abbastanza comune tra gli occidentali che visitarono la Cina prima dei nostri giorni), non aderisce al teatro cinese: trova l’opera maoista troppo propagandistica, il che era vero, in effetti tali lavori erano basati sulla propaganda e tesi a suscitare emozioni pro-rivoluzionarie, ma che dire dell’idea piuttosto idiosincratica, dovuta a una trasposizione occidentalistica e aliena alle convenzioni teatrali autoctone, che “le truccature sono infantili” e i “personaggi somigliano a bambole” (p. 46)?


[Roberto Bertoni]