[The shop window (Belleville 2014). Foto Rb]
Alberto Moravia, Cina 1937-1938. Sottotitolo:
I primi reportage dalla Cina. Parte II. Milano, La rivista dei libri, 1993
Ci siamo imbattuti in questo libricino fuori
commercio su uno scaffale di una biblioteca privata. Moravia si
recò in Cina più volte: negli anni Trenta, appunto; poi nel 1967 e nel 1986,
ogni volta scrivendo reportage. È di
Donatello Santarone un capitolo intitolato “La mediazione letteraria in
prospettiva culturale: la rappresentazione della Cina in Alberto Moravia,
Franco Fortini e Alberto Arbasino” [1],
in cui viene emesso un giudizio nel complesso positivo sugli articoli del
1937-1938. Santarone ricorda che Moravia scelse il viaggio in Cina come una
delle tattiche di respingimento del fascismo che lo soffocava; rileva la
consapevolezza moraviana della gravità dell’invasione giapponese; e la “commossa
e insieme paternalistica partecipazione” con cui lo scrittore si accostò al
degrado e alla povertà cinesi di quei tempi [2].
Ciò è vero. Tuttavia, a una lettura personale, ci
hanno colpito anche altri elementi, che si potrebbero delineare come
occidentalisti.
Se, da un lato, Moravia è ben informato sulla
politica internazionale e conosce vari aspetti della politica cinese, si
produce non di rado in giudizi che paiono affrettati, considerando anche il
fatto che non parlava cinese e si serviva di interpreti.
Per esempio, sul teatro dell’Opera, sebbene dagli
scanni del pubblico riferisca con la precisione descrittiva che è propria del
suo stile, trova “curiosamente patetico” il “falsetto” di una delle parti, che
si presuppone sia un effetto della sonorità della lingua cinese e dello stile
di canto su un orecchio occidentale; e ritiene la musica “il più sgradevole,
inopportuno e stonato fracasso che avessi mai udito in vita mia” (p. 73).
Si dilunga sulle missioni e assegna loro un ruolo
positivo, in opposizione al colonialismo di stampo commerciale e politico, ma ritiene
esagerate le posizioni antistraniere di molti cinesi.
È sensibile al contrasto spaziale e sociologico
tra “il disordine umano” della capitale e le misure grandi e orizzontali (che
contrappone ai grattacieli di New York in positivo) dei palazzi imperiali,
nonché l’ambiente “ordinato e solitario” del Tempio del Cielo (p. 101). Poi,
però, giudica il Taoismo una “religione arcaica e magica, terrestre e misteriosa”
(p. 103); e ribadiamo una volta di più, in relazione al viaggio in Oriente in
generale, chiunque lo compia da Ovest, che ciò che è “misterioso” per il
visitatore occidentale, non è detto che lo sia per la quotidianità delle
persone che in Asia vivono gli elementi culturali ovviamente con
naturalezza, come parte di sé e della propria comunità, senza “arcano”
insomma.
Vero che Moravia è partecipe, come si citava poco
sopra. In particolare, la visita a una filanda di seta di Shanghai suscita, tra
i particolari dettagliati, la resa con frasi secche e obiettive, una
similitudine con una “bolgia” (p. 113) e la denuncia del lavoro minorile, oltre
alla considerazione che la Cina avrebbe potuto perseguire un’industrializzazione
più rapida se avesse avuto una classe dirigente più efficace.
Moravia si appunta invece, per noi piuttosto
stranamente, su una presunta mancanza di patriottismo dei cinesi (ma non è
proprio di quegli anni l’inizio della lotta nazionale antigiapponese? Il
movimento che liberò alla fine la Cina? Insomma, appunto, il sentimento
nazionale manifestato in modo lampante?).
Se vengono colti il peso fondamentale della famiglia
nella vita cinese, la subalternità della donna, l’importanza del vincolo coniugale,
al contempo viene giudicato il popolo cinese come privo di passione, il che lascia
piuttosto perplessi.
Nelle pagine conclusive, Moravia definisce i
cinesi “il popolo più lieto del mondo. Sempre ridono per nulla” (p. 123). Il
contesto è rispettoso e benevolente verso i cinesi, conscio della fame e dei
lutti, nondimeno quell’osservazione sulla lietezza nasce forse solo da una
distanza antropologica dell’atteggiamento con cui si esprimono i sentimenti in una
cultura diversa da quella dello spettatore.
[Roberto Bertoni]