[Chinatown (Bangkok, 2009). Foto Rb]
AA.VV. Capire la Cina. “Testimonianze”,
458, 2007, pp. 45-130
È
questa una “sezione monotematica” della rivista "Testimonianze" e comprende vari interventi, tutti
interessanti, tra cui qui si raccolgono alcune idee seguendo percorsi personali
più che di priorità culturale.
Rampini,
nel suo intervento, così sintetizza il “passaggio epocale” del ventunesimo
secolo:
“Il
segno più evidente di quel passaggio è l’esplosione dell’individualismo, del
materialismo, del consumismo. Il progresso materiale è stato immenso,
sollevando centinaia di milioni di cinesi dalla miseria grazie allo sviluppo
dell’economia di mercato. Le contraddizioni sono per certi versi simili alle
nostre (per esempio su quali valori etici collettivi si può ricostruire una
coesione sociale dopo la fine del comunismo. Per altri versi invece sono
contraddizioni legate alla natura politica del regime cinese, che concede molte
libertà economiche, molte libertà nella sfera della vita personale, e
pochissima libertà d’espressione, nessuna libertà politica”.[1]
Giuntini
fa il punto su quello che, a parere di chi scrive queste note, è il chiasmo
dell’orientalismo del nostro secolo:
“Tutte
le volte che capita di leggere o di sentir parlare della Cina, si rischiano due
sentimenti contrapposti, ma altrettanto pericolosi. Per un verso è così facile
cadere nella rete del suo fascino, stordirsi di fronte al canto delle sirene
del possente moto di cambiamento; per l’altro non ci vuole nulla a farsi
travolgere dall’ansia di finire stretti in un angolo per l’incedere minaccioso
del gigante”.[2]
A volte
ci sembra che la valutazione obiettiva della Cina, anche da parte di chi la
studia da prospettive di competenza sociale, economica, politica, letteraria,
sia inficiata da un’osservazione già pregiudiziale in partenza, basata
sull’idea che l’assetto comunista sia di per sé sbagliato senza considerare che
invece aspetti di uguaglianza e di indipendenza dalle multinazionali straniere
sono stati realizzati, pur essendo il controllo da parte del partito
stringente. Più che di “atipicità”, concetto invocato da Caselli,[3] sarebbe forse il caso di
notare come quella congerie di dinamiche che comprendono lo sviluppo
dell’individualismo e del liberismo in un regime politico diverso
dall’Occidente abbia costituito una tipicità, anche in funzione dell’estensione
del territorio e del numero di abitanti (il che ovviamente non significa che in
assoluto la non libertà di espressione sia augurabile e, con parametri di
relativizzazione, che le differenze di classe non siano stridenti).
Istruttivo
lo scritto di Marigo sulla presenza italiana negli anni Trenta sulla base di
archivi fotografici appartenuti a due marinai vissuti in Cina nel 1937 e 1938.[4] La comunità italiana di
Tanjin in quel periodo era composta da circa quattrocento persone, tra cui
parecchi commercianti.
Utile
la recensione di Cina, il drago rampante,
di Pisu,[5] sebbene purtroppo non evidenzi più di
tanto la complessità del libro e l’adesione non acritica dell’autrice al Paese
asiatico, facendo a ogni buon conto riferimento alla difficoltà della
modernizzazione rispetto all’esigenza di conciliarla colle identità tradizionali
arginando in parte almeno l’occidentalizzazione.
[Roberto
Bertoni]
[1] F. Rampini, p. 52 di “Fare i conti
con l’ombra di Mao”, intervista a cura di S. Saccardi, pp. 51-55.
[2] A. Giuntini, p. 56 di “Il gigante in
movimento: realtà e stereotipi”, pp. 56-60.
[3] G. Caselli, p. 61 di “Un jumbo tra le
oche”, pp. 61-66.
[4] M. Marigo, “Italiani di Cina”, pp. 116-20.
[5] Cfr. R. Pisu, Un drago rampante, Milano, Sperling & Kuofer, 2006. La
recensione di M. Malucchi s’intitola “Un drago rampante”, pp. 127-30.