15/08/13

AA.VV., CAPIRE LA CINA


[Chinatown (Bangkok, 2009). Foto Rb]


AA.VV. Capire la Cina. “Testimonianze”, 458, 2007, pp. 45-130

È questa una “sezione monotematica” della rivista "Testimonianze" e comprende vari interventi, tutti interessanti, tra cui qui si raccolgono alcune idee seguendo percorsi personali più che di priorità culturale.

Rampini, nel suo intervento, così sintetizza il “passaggio epocale” del ventunesimo secolo:

“Il segno più evidente di quel passaggio è l’esplosione dell’individualismo, del materialismo, del consumismo. Il progresso materiale è stato immenso, sollevando centinaia di milioni di cinesi dalla miseria grazie allo sviluppo dell’economia di mercato. Le contraddizioni sono per certi versi simili alle nostre (per esempio su quali valori etici collettivi si può ricostruire una coesione sociale dopo la fine del comunismo. Per altri versi invece sono contraddizioni legate alla natura politica del regime cinese, che concede molte libertà economiche, molte libertà nella sfera della vita personale, e pochissima libertà d’espressione, nessuna libertà politica”.[1]

Giuntini fa il punto su quello che, a parere di chi scrive queste note, è il chiasmo dell’orientalismo del nostro secolo:

“Tutte le volte che capita di leggere o di sentir parlare della Cina, si rischiano due sentimenti contrapposti, ma altrettanto pericolosi. Per un verso è così facile cadere nella rete del suo fascino, stordirsi di fronte al canto delle sirene del possente moto di cambiamento; per l’altro non ci vuole nulla a farsi travolgere dall’ansia di finire stretti in un angolo per l’incedere minaccioso del gigante”.[2]

A volte ci sembra che la valutazione obiettiva della Cina, anche da parte di chi la studia da prospettive di competenza sociale, economica, politica, letteraria, sia inficiata da un’osservazione già pregiudiziale in partenza, basata sull’idea che l’assetto comunista sia di per sé sbagliato senza considerare che invece aspetti di uguaglianza e di indipendenza dalle multinazionali straniere sono stati realizzati, pur essendo il controllo da parte del partito stringente. Più che di “atipicità”, concetto invocato da Caselli,[3] sarebbe forse il caso di notare come quella congerie di dinamiche che comprendono lo sviluppo dell’individualismo e del liberismo in un regime politico diverso dall’Occidente abbia costituito una tipicità, anche in funzione dell’estensione del territorio e del numero di abitanti (il che ovviamente non significa che in assoluto la non libertà di espressione sia augurabile e, con parametri di relativizzazione, che le differenze di classe non siano stridenti).

Istruttivo lo scritto di Marigo sulla presenza italiana negli anni Trenta sulla base di archivi fotografici appartenuti a due marinai vissuti in Cina nel 1937 e 1938.[4] La comunità italiana di Tanjin in quel periodo era composta da circa quattrocento persone, tra cui parecchi commercianti.

Utile la recensione di Cina, il drago rampante, di Pisu,[5] sebbene purtroppo non evidenzi più di tanto la complessità del libro e l’adesione non acritica dell’autrice al Paese asiatico, facendo a ogni buon conto riferimento alla difficoltà della modernizzazione rispetto all’esigenza di conciliarla colle identità tradizionali arginando in parte almeno l’occidentalizzazione.

[Roberto Bertoni]




[1] F. Rampini, p. 52 di “Fare i conti con l’ombra di Mao”, intervista a cura di S. Saccardi, pp. 51-55.
[2] A. Giuntini, p. 56 di “Il gigante in movimento: realtà e stereotipi”, pp. 56-60.
[3] G. Caselli, p. 61 di “Un jumbo tra le oche”, pp. 61-66.
[4] M. Marigo, “Italiani di Cina”, pp. 116-20.
[5] Cfr. R. Pisu, Un drago rampante, Milano, Sperling & Kuofer, 2006. La recensione di M. Malucchi s’intitola “Un drago rampante”, pp. 127-30.