Seconda edizione, Abingdon (UK) e New York, Routledge, 2008
Accresciuto e rivisto, nonché connotato da
dibattito nei confronti di recensioni e critiche relative all’edizione del 1997,
il volume si occupa, oltre che di teoria, di casi concreti di movimenti diasporici, in particolare di
quelli di africani e armeni, di lavoratori con contratti a termine indiani e
inglesi, delle diaspore del mondo degli affari e del commercio di cinesi e
libanesi, di sionisti e Sikh, della deterritorializzazione dei Caraibi e di
altri argomenti, costituendo una densa problematica che ha reso l’opera un
caposaldo sull’argomento.
Qui ci premono soprattutto due capitoli: il primo
che definisce il concetto di diaspora; e l’ottavo, sulla diaspora nell’era
della globalizzazione.
È vero che c’è stata un’evoluzione dell’idea di
diaspora, partendo dal prototipo, soprattutto ebraico, di una “dispersal following a
traumatic event in the homeland” (p. 2), verso un’espansione del concetto che è
arrivato a includere comunità a disagio rispetto agli schemi della società
dominante e altri elementi sociologici. Restano comunque, sottolinea, Cohen,
aspetti comuni che permettono di individuare cosa sia una diaspora e quando un
movimento di popolazione o una comunità si possa definire tale. Tali aspetti
sono nove:
1. quello già citato della dispersione dovuto a un
evento spesso traumatico;
2. “expansion from a homeland in search of work,
in pursuit of trade or to further colonial ambition”;
3. l’esistenza di “collective memory and myth
about the homeland”;
4. l’idealizzazione della patria reale o
immaginaria;
5. il ritorno frequente in patria con l’approvazione
sociale del gruppo di appartenenza (per esempio per ragioni di studio o di lavoro
o di ricollegamento con le origini);
6. una marcata coscienza di appartenenza etnica,
religiosa, comunitaria;
7. una “troubled relationship with host societies,
suggesting a lack of acceptance or the possibility that another calamity might
befall the group”;
8. empatia con appartenenti alla stessa comunità
in paesi diversi;
9. la “possibility of a distinctive creative,
enriching life in host countries with a tolerance for pluralism” (p. 17).
Nell’era della globalizzazione, l’economia consente
collegamenti internazionali e la presenza di quadri d’impresa, creando nuove
possibilità di diaspora, frattanto si creano forme nuove e tradizionali di
immigrazione, si sviluppano sensibilità cosmopolite e si assiste a un revival
della religione in quanto fattore di coesione sociale. Tra gli esempi forniti
da Cohen ci sono la forte presenza commerciale giapponese a Londra, l’islamismo
fuori dei paesi islamici, le comunità imprenditoriali cinesi fuori della Cina.
Viene evidenziata la funzione di ponte tra culture delle neo-diaspore, con il
bilinguismo diffuso oggi tra gli appartenenti a queste comunità, la coesistenza
di “cosmopolitanism and ethnic collectivism” (p. 148), nuove e complesse forme
di identità.
[Roberto Bertoni]