29/01/12

Paola Polito, 1990 - SANDA

Quando arrivò la telefonata, Anghela lasciò che al rientro da scuola la figlia pranzasse con calma e, dopo la consueta esercitazione di pianoforte, le annunciò la morte del pittore Petre Nemoiu, suo padre. Non sapeva se l’informazione potesse avere per lei un significato speciale, le disse; in ogni caso era meglio venirlo a sapere in casa, dove avrebbe potuto reagire liberamente. Sanda commentò a labbra strette che la notizia della morte di un estraneo non poteva che lasciarla indifferente. Anzi, provava sollievo, perché era finita. Una buona volta era finita con l’umiliazione delle pratiche legali per strappare alle tasche di quell’egocentrico dissipatore pochi e stentati assegni alimentari, ma era finita soprattutto con la sottaciuta, dolorosa attesa che quel padre genialoide producesse una volta o l’altra, anche solo per sbaglio, per un’improvvisa extrasistole sentimentale, un gesto spontaneo, di curiosità, di interesse, di pentimento. Niente. Mai niente fin lì e, adesso, mai più. Solo di questo aveva potuto avere parte: di un annuncio di morte. Mai più. Andò a chiudersi in camera.


Per arrivare alla villa bisognava salire in collina, su per la strada che costeggiava la Chiesa di San Demetrio. Non sapeva perché la voglia di visitare la casa le fosse presa proprio adesso, in quel congedo scolastico a Sibiu e a distanza di tanti anni. Troppi, certo, per quel che voleva fare. Ma cosa voleva fare? Era tutto così incerto! Si sentì mancare il fiato. L’asma, ma doveva essere soprattutto per la foga con cui aveva affrontato l’ultimo tratto di strada che la separava dal luogo di nascita dei suoi primi sbrindellati ricordi. I suoi primi e ultimi ricordi legati a Petre, i suoi primi e ultimi ricordi legati a loro tre insieme. Una famiglia. Cos’era per lei quella famiglia? Non il ricordo di un triangolo amoroso, dei volti di mamma e di Petre, dei loro corpi in uno stesso scenario, come in una fotografia, no. La sua famiglia era un giardino con un piccolo sentiero verso una porta e un pavimento a scacchi. E una stufa. Neppure una stufa intera, veramente; quell’idea era certo una ricostruzione a posteriori, concepita in età adulta.

Di fatto, quel che ricordava erano delle mattonelle bianche di maiolica con un disegno floreale azzurro, in rilievo. I suoi polpastrelli, dopo quasi due decenni, conservavano ancora traccia della consistenza e del calore di quelle mattonelle. Era per verificare quella consistenza e quel calore, che era venuta in treno fin lì, in quella città, su quella strada? Avrebbe riconosciuto la casa? E che cosa avrebbe detto ai nuovi padroni? Scusatemi tanto, ma voglio vedere se in casa vostra c’è una vecchia stufa di maiolica. È l’unico ricordo che ho del pittore Petre Nemoiu. È l’unico ricordo che ho di mio padre. Sono stata qui una sola volta, avevo poco più di un anno, i miei avevano deciso di trascorrere una vacanza insieme. Una sola volta. Diciassette anni fa. Avrebbe detto questo?

Quando si trovò davanti alla casa, seppe di essere a destinazione. Spinse il cancello di ferro battuto, attraversò il vialetto, suonò alla porta. Venne a aprirle un uomo alto e magro, con i capelli brizzolati, seguito da un setter molto giovane che subito le saltò addosso e la leccò in viso. Il cane fu subito allontanato. Sanda non guardò il padrone del cane in volto, non le interessava; fece scorrere lo sguardo sul pullover di sottile lana beige che l’uomo indossava, e fissando gli occhi sul suo torace magro sotto la lana disse:

- Scusatemi tanto, ma vorrei vedere se in casa vostra c’è una vecchia stufa di maiolica. È l’unico ricordo che ho del pittore Petre Nemoiu. È l’unico ricordo che ho di mio padre.

Abbassò lo sguardo. Con meraviglia vide che i piedi dell’uomo si spostavano verso l’interno della casa. Li seguì lungo un percorso a scacchi. Ecco. Si sentiva di nuovo soffocare. L’uomo la prese per un braccio, la sospinse verso un angolo scuro. La stufa era lì. Superba e, anche se rattoppata e scheggiata qua e là, funzionante. Una buona stufa di maiolica che doveva aver riscaldato gran parte della casa, testimone delle sregolatezze paterne nelle rigide notti sibiene.

Si avvicinò, toccò le mattonelle. Bianche, con un disegno floreale azzurro, in rilievo. Ne riconobbe coi polpastrelli la consistenza e il calore.

L’uomo, adesso, la spingeva di stanza in stanza, le raccontava di essere stato un buon amico di suo padre il pittore. Un gran pittore. Molto quotato, ma spendaccione. Sperperatore. Un gran viveur; un uomo affascinante, intelligente e, anche, a volte, abissalmente triste. L’alcool, sì. L’incapacità di amare. Nei momenti di lucidità diceva di sapere che sarebbe morto abbandonato da tutti, solo come un cane. Non era andata proprio così. Se ne era occupato lui, di Petre. Per simpatia, per compassione. Negli ultimi anni, il maestro era molto malato, non riusciva più a salire fino alla villa; alla fine avevano fatto una permuta. Petre era andato a vivere nell’appartamento cittadino dell’amico, al pianterreno, confortevole e caldo. Gli aveva lasciato in cambio la villa. Tutto regolare, per carità. Conservava le carte. Voleva vederle?

Sanda si guardava intorno. Non ascoltava. Non era venuta per incontrare quell’uomo. Stringeva la mano destra a pugno, per non lasciarsi scappare via il calore della stufa ritrovata.

Adesso l’amico di Petre Nemoiu indicava sulle pareti i quadri del maestro: ecco, vedeva?, quello era l’ultimo, Petre l’aveva dipinto poco prima di morire. La cirrosi, sì. Anzi, no, veramente, non sapeva se faceva bene a dirglielo, una signorina così delicata…, ma anche… sì, anche coraggiosa… venire qui a chiedere di entrare nella casa del padre che non ha… che non ha mai…, insomma, ecco… l’ultimo quadro, veramente, è un altro… Petre diceva che era per lei, signorina, per Sanda. Lei si chiama Sanda, vero?

L’uomo tirò fuori da un grande armadio di legno massiccio una tela avvolta in alcuni fogli di giornale. La scartò agevolmente perché era abbastanza piccola, cinquanta o sessanta centimetri per settanta. La girò verso Sanda tenendola premuta contro il pullover, all’altezza del suo torace magro. Era bianca.

Purtroppo, o per fortuna, aggiunse l’uomo, Petre non era riuscito neppure a incominciare l’opera che voleva dedicare alla sua Sanda. Proprio così diceva, “questa tela sarà per la mia Sanda”. Pronunciò quella frase con un tono eccessivamente dolce, in cui a Sanda parve di sentire dello scherno. Per la prima volta guardò l’uomo negli occhi. L’amico di suo padre abbassò lo sguardo.

Il nuovo proprietario accompagnò la figlia di Petre alla porta. La ragazza se ne andò via in silenzio, percorse il sentiero lungo il giardino con la mano destra chiusa a pugno, si avviò sulla strada senza richiudere dietro di sé il cancello.