Sullo scenario universale della provincia romagnola – marchio di fabbrica di gran parte della produzione di Avati – si snoda quest’amara commedia oggi quasi dimenticata, ma ancora attualissima. La nobile vergine Girolama Pellacani da Bagnacavallo ne è la discreta eppure onnipresente protagonista, insieme al suo istrionico discendente, il Barone Anteo Pellacani. La vicenda parte ab antico, nel lontano 726, quando Girolama salva le compagne novizie dallo stupro collettivo offrendo se stessa ad un’orda longobarda. Dopo l’oltraggio subito decide di vivere da eremita su un fico, dove darà alla luce il figlio del sacrificio. Subito dopo la nascita, si cominciano ad attribuire a Girolama, e per estensione al fico, poteri miracolosi: infatti, secondo la leggenda ormai istituzionalizzata in mistero della fede, la santa appare regolarmente tra i rami, pronta a dispensare le sue grazie. E qui, Avati, con un salto spazio-temporale, viaggia attraverso dieci secoli per farci arrivare agli anni Settanta: il Barone Anteo, ultimo rampollo della famiglia Pellacani, ex-campione di maratona, anticlericale, e tendenzialmente bombarolo, diventa erede universale del defunto Barone nonno. Quest’ultimo, nel 1936, prima di una gara olimpionica a Berlino, l’aveva fatto salire sull’albero perchè ne ricevesse benedizione e, grazie a questa, ottenesse vittoria. Anteo sale, un ramo cede sotto il suo peso, lui cade dal fico, si spezza una gamba e la carriera, guadagnandosi il soprannome di “gambina maledetta”. Dopo una vita trascorsa tra bravate e beffe di natura più o meno politica, Anteo ritorna a Bagnacavallo con l’intenzione di vendicarsi della sovrastruttura religiosa, dell’establishment paesano, ma soprattutto del fico. Cerca di distruggerlo in tutti i modi; quando è ormai deciso all’impossibile – tentando addirittura di eliminarlo tramite bombardamento aereo – gli appare la santa Girolama, la quale altri non è che una delle due mogli prostitute di Checco Coniglio detto Biancone, pappone bigamo, albino, ed agente di vendite della ditta di oggettistica porno Sadomasosex, interpretato da un insuperabile Paolo Villaggio. La ragazza è incinta ed è salita sull’albero in preda alla voglia di fichi; avvolta in una candida vestaglia viene scambiata per la santa da un Anteo ormai trasfigurato dalla “grazia” ricevuta, irrimediabilmente scivolato nel meccanismo perverso del pentimento. La commedia degli errori s’innesca ai danni del Barone: colto da fanatismo religioso, venderà, sotto istigazione di Checco Coniglio, spacciatosi per angelo emissario della santa, la proprietà ambita dalla cugina Eugenia e dalle zie. Con il denaro ricavato vuole fondare il monastero delle suore del fico – in realtà un bordello. A piano quasi completato, però, la santa/prostituta, pentita dell’inganno, denuncerà il tutto ai Carabinieri. Presa dal rimorso, torna nel giardino della villa, decisa a riscattarsi agli occhi di Anteo, che continua a crederla santa. Finirà invece con il morire di parto tra le braccia del Barone, rinnovando così il miracolo ai piedi del fico benedetto. Il film si chiude con l’emblematica scena di Anteo in fuga, mentre stringe a sè il neonato, mormorando ossessivamente: “È mio, è mio, il bambino è mio”.
L’influenza della commedia dell’arte appare subito chiara: un insuperabile Ugo Tognazzi [1] incarna nel Barone Anteo la spavalderia di un vendicativo Capitan Fracassa. Cercando di dare una forma concreta alla sua rabbia antica, il Barone mescola semieroici furori di stampo anarchico ai frizzi ed ai lazzi di un saltimbanco. Paolo Villaggio/Biancone controbilancia con sottile astuzia da perfido Arlecchino incolore il palcoscenico romagnolo, altrimenti monopolizzato da Tognazzi. La cugina Eugenia, pronta a tutto pur di sedurre Anteo, nella sua esibizione canora da Colombina idiota risulta – per usare le parole dello stesso Barone – così schifosa da rasentare il sublime. A ruota seguono le zie subdole e manipolatrici, il sindaco hippy, il parroco vanesio, il brigadiere con velleità da agente segreto, e tutta una serie di dramatis personae in una folle mascherata itinerante.
Avati riesce magistralmente ad amalgamare la parodia alla satira per raggiungere lo spazio comune e condiviso del carnevale. I riferimenti al terrorismo, ai tentati colpi di stato e agli attacchi bombaroli che caratterizzarono i nostri anni Settanta ci sono tutti: basti ricordare il fallito golpe Borghese, le strutture para-militari quali la Rosa dei Venti, ed i servizi segreti, dal SID, al SISMI ed infine al SISDE.
Sul retro del canovaccio della commedia è sapientemente ricamata la realtà rovesciata dell’eterno carnevale umano. Avati aveva già dimostrato il suo interesse per l’esplorazione dell’elemento religioso affiancato al mistero ed al gothic, nel suo precedente MAGNIFICAT, ma soprattutto in BALSAMUS, L’UOMO DI SATANA; ne LA MAZURKA invece affronta il tema del mistero della fede, del dogma, ed il rovesciamento dei suoi paradigmi, fino a spingersi alla sfera politica senza voler con questo assumere mai le vesti dell’impegnato. Quello di Avati è un cinema sicuramente autoriale, in cui i contenuti si distaccano dal contesto politico o politicizzato, senza però ignorarlo completamente, ma piuttosto incorporandolo in quello che di beffardamente fiabesco c’è nella farsa umana, ottenendo un risultato che Maraldi definisce in questo modo:
“favolistico, che mescola fantastico e quotidiano, magia ed incanto, terra e memoria, e che assicura continuità ad una serie di opere venute a formare un insieme ben riconoscibile ed omogeneo. Un ‘favolistico’ che si evidenzia anche dal punto di vista narrativo, grazie all’uso frequente della voce fuori campo. Avati è un affabulatore, un narratore di storie e la voce off sta a ribadire questa sua volontà e vocazione” [Maraldi, p. 9].
Si mantiene fedele alla commedia all’italiana – erede di quella dell’arte – ma inserendo un sarcasmo destabilizzante o almeno inquietante, nonostante la risata che erompe irreprimibile quasi ad ogni sequenza. LA MAZURKA diventa quasi un “manuale” da seguire per operare il rovesciamento al quale Avati – lui stesso dichiaratosi cattolico praticante [2] – ci guida scena per scena, fino allo smantellamento dei canoni socio-politico-religiosi. Una lettura accurata del testo filmico ci permette di delineare caratteristiche che diventano universali se contestualizzate nella sfera della cultura occidentale, dunque non necessariamente limitate alla commedia all’italiana. Appaiono evidenti le categorie – se così è concesso definirle – delineate da Bahktin in RABELIAS ED IL SUO MONDO, poi riprese nell’analisi di Sue Vice:
- “ Carnival is a pageant without footlights and without a division into performers and spectators
- Carnival allows free and familiar contacts between people otherwise separated hierarchically
- Carnival allows unusual combinations: the sacred with the profane, the lofty with the low, the great with the insignificant, the wise with the stupid
- Death and renewal are central to carnival
- Carnival laughter is directed to exalted and sacred objects, and forces them to renew themselves
- Carnivalesque “sacrificial dismemberment” is a device in which parts of the body are listed in irreverent ways
- Grotesque realism in the carnival includes parody and any other form of discourse which brings down to earth anything ineffable or authoritarian, a task achieved principally through mockery” [Vice, pp. 138-39].
Nel rovesciamento operato da Avati, il palcoscenico della commedia scompare insieme alle linee immaginarie di demarcazione tra attori e spettatori. Questo processo di dissipazione è individuabile sin dall’inizio, con la scena del funerale del Barone nonno, dove il brigadiere mascherato da agente segreto viene ovviamente riconosciuto da tutti i paesani, attori/spettatori, fino all’apparizione di Checco Coniglio, che segna anche il punto d’inzio del tragico mistero buffo finale. La sovversione della gerarchia è esemplificata nella scena della spoliazione del monsignore ad opera di Anteo, il quale penetra nei recessi del Vaticano, appropriandosi delle vesti del prelato per poi arrivare fino agli appartamenti papali, dove così travestito cercherà di far arrestare il Papa.
I fedeli “inferiori” dinanzi al prelato rimasto nudo, compresi la dama di San Vincenzo fintamente scandalizzata ed il vicario rapito in ammirazione, sono, in virtù del rituale della spoliazione, investiti di libertà d’interazione altrimenti non concessa dalla struttura gerarchica. La morte ed il rinnovamento, grazie alla rinascita, sono più che espliciti nelle due scene – d’apertura e di chiusura, sottilineando così la ciclicità degli eventi – del parto ai piedi del fico, parodia dell’avvento evangelico. Il realismo grottesco tipico di tutta la MAZURKA vuole essere l’esatto opposto di ogni forma d’arte o letteratura elevate, nella fattispecie le SACRE SCRITTURE e, per estensione o riflesso, le agenzie del potere che se ne servono come strumento di oppressione. La risata carnevalesca, lo scherzo destabilizzante nei confronti dell’auctorictas è presente sin dall’inizio nella rappresentazione pseudo-sacra della sofferenza di Girolama. Quando le compagne le chiedono se si sia “veramente trattenuta con tutti quei signori”, l’eroina risponde con orgoglio, in dialetto: “Sì, con tot!”, con tutti, e di rimando una voce fuori campo inizia il conteggio degli assalitori per finire con: “Ah, e ghe jera anca quello con le corna? mo’ ben allora fan trentadue…”. Segue lo smembramento sacrificale nell’esilarante pseudo-confessione che Anteo fa al parroco Don Arioso – pronto ad adottare ogni innovazione tecnologica, tra cui la video-registrazione dei fedeli in confessionale, grazie ad una video-camera collegata al televisore di casa sua. Da qui Anteo, scrutandolo minacciosamente attraverso l’occhio-video, gli promette: “Ti spacco il cervello, ti spremo il pancreas”, ecc. Don Arioso, dopo l’inquietante telefonata, procede allo smembramento/spoliazione di se stesso, ponendosi davanti allo specchio, liberandosi del parrucchino, del fondo tinta e del colletto rigido da prete, guardandosi ossessivamente senza apparentemente riconoscersi.
Il sacramento della confessione, l’oggetto dell’esaltazione religiosa e istituzionalizzata, è qui deriso, degradato e decostruito; piuttosto che profanazione si assiste ad una trasformazione da divino in terreno, al livello del corpo, perchè il processo di rigenerazione possa avvenire. Altra parodia dello smembramento sacrificale è identificabile nella scena in cui Checco Coniglio si esibisce davanti alle zie in una danza quasi rituale, dove avviene un dismemberment figurato, in cui le sue parti sessuali, grazie ad ostentati primi piani, sono elencate nel modo più esplicito ed irriverente possibile. Epitome dello smembramento sono i giocattoli erotici venduti da Checco Coniglio, e le rappresentazioni di donne “incomplete”, cioè fatte letteralmente a pezzi per una migliore commercializzazione: seni o altre parti intime ornano gli abiti, le cravatte e la roulotte del protettore, mentre sempre le stesse parti femminili, in gomma gonfiabile o meno, fanno bella mostra di sè sui cataloghi del campionario che Checco Coniglio propone con professionale puntualità agli abitanti di Bagnacavallo.
La lode iperbolica – ed al tempo stesso il vituperio –, tipici del carnevalesco, non potrebbero essere meglio evidenziati della scena finale del parto, dove la “santa”, in preda a dolori atroci, si lancia in una serie di bestemmie ed insulti, abusando la sacralità del suo status, noncurante del rimprovero del Barone: “Ma…Girolama…tu…tu sei una santa!”; il che si ricollega alla sua prima “apparizione” sul fico, quando Anteo pentito invoca per ben quattro volte il venerato nome di Girolama. La ragazza risponde: “Mah, c’è chi mi dice bona, bella, brava e sì, anche santa, ma Girolama non me l’aveva mai detto nessuno…” L’abuso fisico e morale cui la ragazza è sottoposta dai clienti e dal marito si rovescia in legittima adorazione da parte di Anteo. Ne LA MAZURKA, però, il sacro non viene necessariamente sbeffeggiato o profanato, quanto piuttosto reso “umano” nell’ambivalenza del reale. C’è da chiedersi se Avati, che, per dirla con Gian Luigi Rondi, “scherza con fanti e con santi, iroso e pietoso, devoto e blasfemo, ora esaltato e tempestoso fino alla follia – la follia classica delle Romagne” [3] – non abbia invece voluto, con la sua santificazione di una prostituta, proporre un Vangelo rovesciato, un mistero buffo da inframezzarsi al ciclo delle tragedie degli anni di piombo, proponendo una realtà dove la pluralità è possibile, contrapposta al binarismo statico delle agenzie del potere, un binarismo da sostituirsi e dunque abbattersi solo grazie alla sovversione.
OPERE CITATE E CONSULTATE
Avati, P., LA MAZURKA DEL BARONE, DELLA SANTA E DEL FICO FIORONE. Diretto da P. Avati; soggetto di Pupi e Antonio Avati, Euro International Film, 1975
Bakhtin, M., RABELAIS AND HIS WORLD, Indiana University Press, 1984.
Bondanella, P., ITALIAN CINEMA, FROM NEOREALISM TO THE PRESENT, New York, Continuum, 1990.
Brunetta, G., THE HISTORY OF ITALIAN CINEMA, Princeton University Press, 2009.
Faldini, F. e Fofi, G., a cura di, L’AVVENTUROSA STORIA DEL CINEMA ITALIANO. Cineteca di Bologna, 2009.
Hirschkop, K. e Shepherd, D. Bakhtin and cultural theory, Manchester e New York, Manchester University Press, 1989.
Maraldi, A., ed., The Cinema of Pupi Avati, Roma, Cinecittà Holding, 2009.
Vice, S., Introducing Bakhtin, Manchester University Press, 1997.
FONTI ELETTRONICHE
“Il Giornale.it”: http://www.ilgiornale.it/interni/pupi_avati_io_che_non_mi_vergogno_dirmi_cattolico/16-06-2007/articolo-id=186279-page=0-comments=1
“Tempo”, 25-1-1975, articolo di Gian Luigi Rondi: http://www.bictonia.it/Seconde%20visioni_file/La%20mazurka%20scheda.pdf
NOTE
[1] Avati così commenta a proposito di Tognazzi: “Un attore che avevo imparato ad amare[…] Il rapporto con Tognazzi fu stupendo” [Maraldi, p. 26].
[2] Da un’intervista del 16-6-2007 al “Giornale”: “Ho avuto un’educazione profondamente religiosa, entrambi i miei genitori erano cattolici praticanti”.
[3] Rondi, G., “Il Tempo”, 25-1-1975.