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A cura di / Ed. Roberto Bertoni.
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ISSN 2009-7123
11/09/11
Im Kwon-Taek, 달빛 길어올리기 (HANJIA)
[U-Fan Lee, "Relatum by Omen" (Olympic Park, Seoul 2011). Foto di Marzia Poerio]
Im Kwon-Taek, 달빛 길어올리기 (HANJI). Corea del Sud, 2011. Soggetto e testo di Im Kwon-Taek. Con Kang Soo-Yeon, Park Joong-Hoon, Ye Ji-Won
Pil-Yong, funzionario presso il comune di Jeonju, riceve l’incarico di restaurare gli annali della dinastia Joseon, copiandoli su carta di qualità, il tipo “hanji” prodotto con metodi naturali e destinato a durare nel tempo. La produzione dell’hanji, che oltre a pagine comprende una serie di manufatti tra cui recipienti e abiti, è una delle attività tradizionali coreane. L’incarico di Pil-Yong è anche orientato verso il rilancio di questa attività, motivando, col valore sociale nonostante i finanziamenti limitati, gli artigiani a tornare alla creazione. Una delle linee narrative del film è dunque questa; e si conclude con un indebitamento del protagonista (che dallo scetticismo iniziale si converte in sostenitore dell’attività affidatagli fino a prestare soldi a chi la conduce), ma anche con il successo dell’iniziativa. Infine Pil-Yong, sospeso per tre msi dall’incarico per accuse poco fondate di corruzione, trovato un artefice dell’hanji, lo finanzia per produrre un tipo di carta che duri “mille anni”, lavorando la notte alla luce lunare in luoghi montani isolati.
Come si legge in una delle recensioni [1], in effetti nella conclusione si assiste a una mitologizzazione dell’assunto centrale.
In nostre recensioni di mostre seulite sullo scorso numero di “Carte allineate”, avevamo prlato di nostalgia: e questo pare anche qui un concetto base col ritorno alle attività tradizionali e il recupero di quanto la modernità lascerebbe alle spalle sprecando capacità e valori culturali importanti.
Il film mette in rilievo tale forma di nostalgia postmoderna; ma non investe nel lacrimevole, anzi si mantiene su un piano di sobrietà e di realismo: scelta che evidenzia senza retorica l’argomento.
Una seconda linea narrativa, strettamente legata alla prima, è quella legata al personaggio di Ji-Won, regista di un documentario sull’hanji. Noi spettatori vediamo non solo le scene (di notevole rigore formale) del documentario, ma anche i retroscena, il perché e il come delle interviste e delle ricerche. Sul piano formale, inoltre, la finzione si integra col documentario in una fusione non pedante, anzi stringente.
Una terza linea narrativa è quella dei problemi personali di Pil-Yong e degli altri personaggi.
In parte c’è un’avversione iniziale, che si trasforma in un avvicinamento fino a un episodio anche di contatto fisico, tra il protagonistra maschile e la regista. Come in altri film coreani recenti, l’istituto familiare viene messo in evidenza come elemento sociale in crisi rispetto alla compattezza presunta della famiglia tradizionale. Ji-Won è divorziata e Pil-Yong ha avuto una storia extraconiugale, scoperta la quale la moglie Hyo-Kyung è stata colpita DA un ictus dal quale si rimette con fatica da due anni, accudita dal marito in preda a sensi di colpa.
Il personaggio di Hyo-Kyung è essenziale non solo perché vittima proprio dell’infrazione delle norme familiari, ma anche per due ragioni legate alla nostalgia di cui sopra.
In primo luogo, Hyo-Kyung cita poesie sul chiaro di luna (che fa parte del titolo in lingua coreana, che significa RACCOGLIERE IL CHIARO DI LUNA, come fa in una scena di nitore cinematografico il marito lasciando che si rifletta in un catino pieno d’acqua affinché la moglie la contempli; ma un altro chiaro di luna, anche questo esteticamente impeccabile con una strada bianca all’infinito in mezzo a una radura presso il mare, viene vissuto dal protagonista con la regista). La luce lunare è inoltre il contorno mitizzato della fattura dell’hanji nella scena finale.
Hyo-Kyung proviene inoltre da una famiglia che produceva hanji finché il padre, innamoratosi di una donna coreano-giapponese, era fuggito in Giappone e la madre era deceduta. Il film è anche la ricerca, da parte di Hyo-Kyung e Pil-Yong, delle origini di lei che, troppo piccola al tempo dei traumi, ha dimenticato il paese natale. Così torniamo di nuovo alla nostalgia come fatto sociale oltre che personale, in quanto casualmente, parlando con un artigiano che si rivela amico del padre di Hyo-Kyung, Pil-Yong viene a sapere che il paese non è più visibile dove la moglie lo ricordava vagamente perché è stato sommerso per edificare una diga. Passato ritrovato e scomparso.
È un bel film, con livelli interagenti e complessità che non inficia l’andamento della storia. L’ambientazione è in luoghi non idealizzati e dove la bellezza e la commozione nascono dalla naturalezza del paesaggio, delle parole e delle azioni, senza che venga però nascosta l’avanzata della modernità anche cinica.
NOTA
[1] HANCINEMA.
[Renato Persòli]