13/11/09

Aniello Di Iorio, GIOVANNI RABONI NEL LIMBO

Nella raccolta OGNI TERZO PENSIERO, le poesie intitolate SONETTI DI INFERMITÀ E CONVALESCENZA indicano una dimensione poetica bipolare: è un aspetto che evidenzia due mondi, quello dei vivi e quello dei morti. Con un’attenta indagine osserveremo che la voce del poeta dà luce ad uno stato d’equilibrio tra i due regni mettendo in risalto un senso di non appartenenza. La voce del niente e altre espressioni omogenee al nulla che emergono dai versi, ovvero delle voci che suggeriscono al lettore uno spazio in cui Raboni non percepisce la dimensione bipolare né dal lato dei vivi né dal lato dei morti, rappresentano le qualità di questa condizione incerta del poeta, ossia uno stato di Limbo. Desidero qui analizzare l’idea della non appartenenza nei SONETTI DI INFERMITÀ E CONVALESCENZA, in altre parole la concezione di Raboni che fa poesia ponderando le due realtà da un ambito indeterminato. Con l’uso delle parole niente, vuoto, e attraverso un approfondimento della loro natura semantica, si tenterà di riconoscere la voce del poeta che naviga nella cerchia neutrale del Limbo.

LA POESIA CHE SI FA, una raccolta di saggi e articoli sulla cronaca e sulla storia del Novecento poetico italiano, introduce al pubblico un saggio intitolato LA POESIA IN CARNE E OSSA, che afferma, di fronte ai tanti movimenti poetici del secondo Novecento, l'idea di Raboni sul fare poesia:

“Oggi che si parla di poesia sperimentale, di rotture formali, di nuova avanguardia, la poesia che si fa - dico: la poesia - è invece una poesia decisamente compromessa con i diversi piani e con le molteplici asperità del reale; una poesia di oggetti, di storie e di figure. Ancora una volta, insomma, la poesia ci appare come uno spazio compreso fra due terreni vaghi esplorati o da esplorare, come un corpo in equilibrio fra due diverse astrazioni [1].

È una dichiarazione che mette in risalto la presa di distanza dalla progettualità neoavanguardistica, ma è anche la rivelazione dell’opera poetica concepita “come uno spazio fra due terreni” [P, pp. 397-98], vale a dire un’esegesi poetica che si manifesta tra i due diversi margini della vita e della morte. Abile a concentrare in un verso due valori diversi, nel suo equanime dividersi fra l’una e l’altra di queste caratteristiche importanti, il poeta milanese ci rivela in profondità quel bisogno di essere e contemporaneamente non essere, di vivere con i vivi e al tempo stesso con i già morti, di sentire con la stessa intensità il fascino della luce e del buio e di farsi testimone delle due esperienze.

Intanto, se c’immergiamo nella poesia, notiamo che sia il tema della vita sia quello della morte emergono frequentemente dai versi di Infermità e convalescenza, in particolar modo nel primo sonetto, dove risaltano di primo acchito queste due differenti entità:

“Nel decomporsi chissà
Che rumore fa il cervello
E che scintille se già
Così assordante è il rovello
D’essere […]

Insieme a precipizio vivi
Travolti da un’atassia
Divina e a un divino niente

Centuplicata la mente
Flottando morti nella scia
Fulgida dei sedativi” [T, p. 261].

Il sonetto inizia con la parola “decomporsi”, dando luogo all’interpretazione del disgregamento di una proprietà corporea. L’espressione di un essere tanto afflitto e turbato dalla propria esistenza potrebbe rivelarci un segno di scostamento dal mondo dei vivi ed un avvicinamento all’altro mondo, ossia quello della morte. Tuttavia, sarebbe difficile riconoscere in Raboni una predilezione per le due nature, e poiché indicano due destinazioni lontane, il poeta orienta la sua voce verso una nuova visione: “I vivi” sono nel “precipizio del divino niente” mentre la mente flotta i “morti”. Quello che emerge da queste righe è piuttosto un poeta che riesce ad osservare questa comunità fatta di esseri viventi e di morti in una sola cerchia, vale a dire in un’ottica bipolare. Sono due rappresentazioni essenziali per il poeta, le quali potrebbero rivelare una sorta di tensione. Infatti, Andrea Cortellessa afferma che nel percorso di Raboni si riscontrano usualmente due tensioni: “E chissà che anche i giudizi di valore non discendano in parte proprio da quest’attitudine diciamo dialettica: che insomma non si appaga di fissare l’esperienza di un autore in uno stato dominante ma vede necessaria la compresenza di almeno due tensioni […]” [T, p. 395].

Secondo Cortellessa [2], Raboni introduce soprattutto l’importanza di una poesia che non è uno stato d’animo né una condizione di privilegio né una realtà inferiore né una realtà migliore: è un percorso in cui si afferma ancora una volta un intreccio di tormenti e conforti, di asprezze e indulgenze. Poiché la presenza delle due nature intralcia la mente del poeta, stando all’affermazione del critico romano, Raboni non può far altro che diffondere tra i versi una concezione alquanto inquieta. Eppure sembra che la voce del poeta milanese vacilli tra gli affanni che rivestono i sonetti di INFERMITÀ E CONVALESCENZA, adagiando il proprio animo all’ombra dell’incertezza, e per affievolire l’intensità di queste due tensioni, Raboni introduce nei versi l’idea della transitività tra un mondo e l’altro. Pertanto, la voce del poeta non si placa sotto un solo stato, non si sofferma né sull’idea della vita, né su quella della morte, bensì le sorvola con consapevolezza.

A questo punto, se Raboni si distacca sia dalla vita sia dalla morte, bisogna capire il luogo dal quale egli narra i suoi versi. Dai versi descritti notiamo un poeta che passa in una regione sconosciuta, ossia un luogo la cui identità in un primo momento sembra ignota al poeta stesso. Ma quando egli espone l’impiego di definizioni specifiche come quella del niente, si cominciano a registrare alcuni accenni della regione dalla quale il poeta orchestra il suo disegno poetico: “Insieme a precipizio vivi / Travolti da un’atassia / Divina e a un divino niente […]”.

L’obiettivo dei vivi, incastrati in un precipizio e “travolti da un’atassia”, resta quello del “divino niente”. I vivi non cercano né la morte né la vita, ma si accostano alla nullità, e poiché la voce del poeta tentenna tra le due cerchie, le qualità poetiche di Raboni rivelano una certa flessibilità nel suo modo di fare poesia, vale a dire una qualità distinta con cui egli riesce a ingegnare i suoi versi di fronte a questo parametro a due binari. Se inoltre scrutiamo questo verso completo da una prospettiva sintattica, notiamo che prima del “divino niente” c’è la preposizione semplice a. L’uso della preposizione è rivelatore di un sostegno sintattico che aiuta i vivi al raggiungimento di un luogo neutro, il “divino niente”, uno spazio indefinito, ossia il Limbo.

D’altro canto, Martin Heidegger, in una delle tre lezioni intitolate THE NATURE OF LANGUAGE, propone una precisazione tra la parola niente e la voce del poeta [3]. Secondo Heidegger, niente è una parola che dal momento in cui viene diffusa in una poesia indica una certa dominanza nel sonetto: “What matters is for us to hear how, in the poem, the whole of that experience is concentrated which the poet has undergone with the word no thing […]” [4]. La concentrazione di Raboni sulla nullità genera una certa esperienza, ovvero una riflessione sulla vicenda di un poeta che percorre appena le tensioni dei due mondi; e se Raboni dà voce al niente, il niente dà voce alle esperienze nei versi. Se da un lato il nulla potrebbe indicare una certa equanimità che serba la voce del poeta lontano dai tormenti, dall’altro rivela un’espressione poetica che libera la stessa voce dai legami dei due regni.

Le parole che accentuano l’estraniamento del poeta dai due regni, conferiscono un maggior valore alla poesia raboniana dal momento in cui esse divulgano anche una qualità iterativa:

“E perdutamente
Così la memoria del niente […]

Niente comporta le delizie
Del pasto d’un riabilitato […]

La fiera del niente” [T, pp. 267-73].

La nullità rappresenta per Raboni un nascondiglio in cui i sentimenti della vita e quelli della morte si sottraggono alla vista del poeta, e mentre egli segue le orme di una voce curiosa, la quale si diletta scoprendo “terreni non ancora esplorati” [T, p. 264], il desiderio di giostrare le sue idee in un ambito inesplorato, lega Raboni ancora una volta alla voce del niente. Per questo motivo, il poeta rinnova ogni qualvolta la qualità contenutistica della voce niente, e si serve di tali espressioni per evidenziare uno “spazio poetico in equilibrio” [T, pp. 397-98] tra due tensioni, ossia il suo modo di fare poesia dal Limbo:

“Il vuoto non manca,
Lo attesta il sapiente
D’Irlanda alla mente
Che si sfiata e stanca

In cerca del niente
Per finire bianca
Di paura e stanca
Da morire in niente” [T, p. 264].

In primo luogo, notiamo che l’espressione niente è nuovamente in profusione, ed accentua sia una sua importanza nei versi sia un forte senso di non appartenenza. Se “il sapiente d’Irlanda” fosse solo in cerca della vita o della morte da esplorare, diremmo che in questi versi ci sarebbe un senso di aderenza ad una delle due nature. Ma egli è “in cerca del niente” per poi “morire in niente”, e non appartiene né alla vita né alla morte, bensì è nuovamente avvolto nel massimo cerchio della nullità. In secondo luogo, mettiamo in cornice soltanto l’insieme di espressioni “in cerca del niente” e “da morire in niente”, e risalta l’idea della rima incrociata con l’espressione niente, la quale esprime un parallelismo continuato ed un suono lineare nella strofa: “In cerca del niente […] Da morire in niente”. Di conseguenza questi due versi danno l’impressione di una continuità consona nel verso, offrendo un particolare rilievo di significato, e se consideriamo il modo in cui Raboni assesta i due versi nella strofa, il niente esprime una posizione di padronanza sulla vita che è “in cerca del niente” e sulla morte che “stanca, muore in niente”. Se la vita dovesse aprire la strada e la morte chiuderla, per Raboni, le due realtà sarebbero racchiuse nuovamente nello spettro del nulla.

Tuttavia, la concezione della non appartenenza acquisisce maggior efficienza quando tra i versi scopriamo un’altra definizione omogenea al niente: “Il vuoto non manca / Lo attesta il sapiente / D’Irlanda alla mente / Che si sfiata […]”.

Siamo quindi al centro di una sfera in cui quello che non manca è il vuoto; e se da un lato ritroviamo i vivi “assordati dal rovello d’essere”, dall’altro ci sono i morti che “flottano la mente”. Insomma, mettendo a fuoco il termine vuoto e la propria natura semantica scopriamo ancora una volta l’esperienza di un poeta avvolto in uno spazio tra due compagini, dove, secondo Raboni, i vivi e i morti non possono prevalere. Poiché “il vuoto non manca”, la voce del poeta permane ancora una volta nella propria neutralità, rivelando lo spirito poetico da un luogo deserto, dove nulla gli appartiene, dove ha voce l’espressione del niente, dove efficace è il senso del vuoto.


NOTE

[1] Delle opere citate si dispongono nel testo i riferimenti alle pagine dopo l’abbreviazione dei titoli: G. Raboni, TUTTE LE POESIE, Milano, Garzanti, 2003 (abbreviato T); LA POESIA CHE SI FA: CRONACA E STORIA DEL NOVECENTO POETICO ITALIANO 1959-2004, con postfazione di G. Cortellessa, Milano, Garzanti, 2005 (abbreviato P).

[2] Mi riferisco esclusivamente ai sonetti di INFERMITÀ E CONVALESCENZA, anche se non sono gli unici ad esprimere queste indicazioni poetiche sopra indicate. Si considerino anche la CADENZA D’INGANNO e A TANTO CARO SANGUE.

[3] Il riferimento a Heidegger non è inteso a concepire un Raboni heideggeriano, quanto a usufruire di una definizione filosofica per sostenere l’analisi dell’idea di non appartenenza.

[4] M. Heidegger, THE NATURE OF LANGUAGE, in BASIC WRITINGS, San Francisco e Londra, Harper Collins, 1993, p. 64.