27/01/08

Ritwik Gathak, TITASH EKTI NADIR NAAM (Un fiume denominato Titas)

Ambientato nel Bengala orientale, questo film in bianco e nero del 1973 (dvd del British Film Institute, 2002), basato su un romanzo di Advaita Malo Barman, racconta la povertà e la perdita di un territorio per cause naturali ed economiche da parte di una comunità di pescatori: il fiume si interra e i proprietari più ricchi comprano appezzamenti sottoprezzo da chi si è impoverito e si riduce alla fame.

La vicenda narrativa si orienta in parte non secondaria attorno alla condizione femminile. Una moglie adolescente, Rajar Jhi (l'attrice Kabari Choudhury), viene rapita la prima notte di nozze; cade nel fiume e la corrente la trascina in un altro villaggio, ove resta dieci anni perché, essendo incinta, non sarebbe stata creduta se fosse tornata a casa, avrebbe anzi subìto il disonore. Quando decide di fare ritorno nella zona da cui era partita, la ospita una giovane vedova, Basanti (l'attrice Rosy Samad). Rajar Jhi ritrova il marito, impazzito in seguito al rapimento, muoiono entrambi. Il figlio, custodito inizialmente da Basanti, trova poi rifugio presso dei pescatori, infine in una famiglia ricca, suggerendo un futuro almeno parzialmente positivo. Basanti frattanto, addolorata e impoverita, muore di stenti; e questo è il finale negativo, che suggella la difficoltà femminile, in questa società, di gestire la vita se al di fuori del matrimonio. Si presta però attenzione costruttiva anche alla maternità e a un ruolo paritetico delle donne nelle assemblee del villaggio.

La vita delle comunità fluviali e la cultura materiale (la pesca, il lavoro dei campi) sono resi con accuratezza naturalistica, ma senza perdere di vista il momento mitico, reso ad esempio dalla trasfigurazione di Rajar Jhi deceduta in una divinità agli occhi del figlio: la sua comparsa magica è data con la spontaneità dei dati di fatto più che con l'aura trasfigurante dei sogni, accettata com'è dai compaesani in quanto esistenza reale, non fittizia.

La crudezza dei rapporti tra i benestanti e gli indigenti è rappresentata con rigore. Non c'è sentimentalismo nel delineare i rapporti interpersonali e anche familiari determinati in parte dagli affetti ma dettati al contempo dalla difficoltà delle condizioni economiche (come tollerare l'adozione di un orfano se non c'è da mangiare a sufficienza? prevale il buon cuore o la realtà del sostentamento?).

È un film notevole, di respiro sociale e antropologico ampio, che ci fa venire in mente, in Occidente, L'UOMO DI ARAN (di Robert J. Flaherty, 1934) e LA TERRA TREMA (di Luchino Visconti, 1948).


[Renato Persòli]