07/11/08

Piera Mattei, UNA CONFESSIONE

Nel quartiere non c'era persona che vedendo un'ombra aggirarsi sui tetti di notte alla luce incerta che veniva dalla strada temesse di ladri o di assassini. Sapevano che si trattava di quella abitudine, strana ma inoffensiva, perché lo stesso istinto che spingeva il sonnambulo al bordo estremo dei cornicioni lo salvava poi giusto in tempo dal cadere di sotto.

Invece venne giù. Proprio davanti ai vetri della stanza dove stavo seduto con gli occhi sollevati dal mio libro.

Le sue braccia erano spalancate come se nel volo intendesse bilanciarsi e planare. E tuttavia mi parve che una mano si muovesse davanti ai vetri della mia finestra in un inequivocabile cenno di saluto. Nello sguardo esibiva un'espressione tra ironica e impudente, come di chi chiedesse scusa di un disturbo che comunque aveva deciso di arrecare.

Lo raccolsero nell'orto sottostante e lo ricoverarono per fratture multiple, tutte sul lato sinistro del corpo, dalle gambe al viso.

Andai a trovarlo all'ospedale. Sentii il dovere di farlo non perché gli fossi amico da prima ma per il motivo che nel cadere si era tutto girato verso la mia finestra per lanciarmi un messaggio estremo di amicizia, e da quel lato proprio s'era tutto schiacciato.

La frattura laterale aveva ridotto il viso a dimensioni asimmetriche, storcendolo in una specie di sorriso fisso che tuttavia non aveva proprio nulla di tragico. Appena mi vide prese ad agitarsi facendomi capire che voleva parlarmi ma non poteva - accennava con la mano sana alla mostruosità della mascella. A gesti anch'io comportandomi chissà perché come se fossi muto o se lui fosse sordo, gli feci capire di stare quieto. A sua volta muovendo l'indice nell'immagine della ruota, disse: "A dopo". Annuii. A dopo, quando fosse guarito.

Nacque così tra noi una strana amicizia sordomuta e prese voce solo dopo che lui fu tornato alla vita normale. La voce aiutava molto per la confidenza che aveva da farmi. Riguardava un'illuminazione che aveva avuto proprio mentre precipitava dal tetto. O forse si trattava dell'intuizione di un attimo prima?

Aveva capito che non era mai stato un sonnambulo sincero e tale era stata l'urgenza di comunicare la sua scoperta da farmi - benché già in volo - quel gesto con la mano contro i vetri della finestra. Aveva mentito. Si era costruito dal niente quella reputazione, dapprima per spavalderia, poi per prendersi gioco degli altri. Alzarsi di notte con ogni tipo di clima per andare a spasso sui tetti, al bordo delle grondaie, era diventata col tempo un'abitudine.

Cos'è veramente un'abitudine alla quale non si può rinunciare? Una qualità che aderisce alla nostra persona in maniera sostanziale ovvero un vizio conseguente a un pigro inceppamento della volontà? Quella notte sul tetto, dopo tanti anni, questi interrogativi gli si erano presentati nella chiarezza accecante e simultanea di un lampo e ne era rimasto folgorato. Per questo era caduto?

Discutemmo insieme di simili interrogativi quel giorno stesso e poi negli anni successivi della nostra amicizia. Infine quei quesiti si tramutarono in veri e propri scogli nei quali ci incagliavamo durante la rotta delle nostre conversazioni. A che pro del resto approfondire quanto ci fosse di autentico nella sua trascorsa natura di sonnambulo?

Quella sua identità vera o falsa concerneva il passato. Lui dalla caduta era rimasto zoppo e non si danno casi di sonnambuli zoppi o in qualunque altro modo menomati.